Per i Paesi arabi del Golfo Persico il 2021 è cominciato con novità molto importanti. Il giuramento di Joe Biden come nuovo presidente degli Stati Uniti d’America porta con sé parecchi interrogativi su prosecuzione e ampliamento degli Accordi di Abramo, operazione fortemente spinta negli ultimi mesi dell’amministrazione Trump per mano soprattutto del suo consigliere Jared Kushner. Altro elemento molto importante sarà la strategia che la nuova amministrazione americana adotterà nei confronti dell’Iran: la robusta probabilità di un rilassamento delle tensioni tra Washington e Teheran potrebbe portare a diversi malumori tra i governi arabi sull’altra sponda del Golfo, in particolar modo in quello saudita, da anni in accesa rivalità con l’Iran per il predominio sulla regione mediorientale.

In attesa che venga definita appieno la strategia dell’amministrazione Biden per la regione, un altro grande evento ha già lasciato il segno nelle relazioni tra gli Stati che la popolano. Dopo più di tre anni di embargo politico, logistico ed economico, il Qatar ha di nuovo relazioni diplomatiche formali con Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto, ossia i Paesi della “coalizione anti-Qatar” che hanno dato vita al blocco. Sono già ripresi i voli diretti tra Doha e questi Paesi e l’unico confine terrestre del Qatar, quello con l’Arabia Saudita, è stato già riaperto.

L’occasione è stato il vertice del Gulf Cooperation Council (GCC) d’inizio gennaio. Il giorno prima della cerimonia formale del 5 gennaio, il Kuwait, Paese che nel corso della crisi diplomatica si è speso come intermediario tra le due parti, ha rilasciato un comunicato stampa che dichiarava la fine dell’embargo.

Il vertice è stato dunque l’occasione per le principalità personalità di questi paesi per avere fin da subito un primo incontro dopo tre anni di tensione. In particolar modo, è stata l’occasione per Mohammad bin Salman, principe ereditario saudita e de facto autocrate del Paese, e Tamin bin Hamad al-Thani, sceicco del Qatar, per mostrare a tutto il mondo l’armonia ritrovata e ritagliarsi un’importante vetrina mediatica a livello mondiale e per le rispettive opinioni pubbliche.

Anche l’Iran si è congratulato per l’avvenimento, concentrandosi soprattutto sulla “capacità del popolo qatariota di resistere alle pressioni esterne”. Effettivamente, il Qatar è uscito dall’embargo senza che Doha abbia dato risposta alle accuse lanciate dai Paesi della coalizione: il sostegno al “terrorismo islamista” (in particolar modo ai Fratelli musulmani, organizzazione messa al bando da tutti e quattro i Paesi coinvolti) e i rapporti ambigui nei confronti del Teheran. Che il governo qatariota costituisca uno storico sostenitore dei Fratelli musulmani così come il più vicino a Teheran tra i Paesi arabi del Golfo erano fatti noti ben prima del 2017. Con la fine dell’embargo sarà da capire quanto continuerà ad esserlo e quanto invece proverà a operare per consolidare la rinnovata concordia con i suoi vicini arabi.

Quali sono le motivazioni che hanno convinto i paesi della coalizione a seppellire l’ascia di guerra e accogliere nuovamente il Qatar senza aver ottenuto nessuno degli obiettivi che si erano posti? Innanzitutto, una causa molto importante è il crollo del prezzo del petrolio avvenuto nei primi mesi del 2020 per causa della pandemia di Covid-19 e della conseguente caduta nei consumi a livello globale. Sebbene l’OPEC preveda una ripresa dei consumi di petrolio per il 2021, rimangono i timori legati a un perdurare della pandemia e delle misure restrittive di contenimento; fattori che metterebbero in discussione le stime ottimistiche rilasciata dall’OPEC. Il Qatar, a seguito della crisi diplomatica, lasciò l’OPEC a partire da gennaio 2019. La riappacificazione tra Doha e i Paesi della coalizione anti-qatariota potrebbe innanzitutto significare un reintegro del Paese all’interno dell’OPEC. Ciò consentirebbe una maggiore capacità da parte degli Stati dell’organizzazione di regolare l’andamento dei prezzi del mercato, sia perché il Qatar è uno dei principali estrattori di greggio, sia perché ha la capacità d’influenzare indirettamente l’andamento del mercato petrolifero attraverso la gestione delle proprie riserve di gas naturale, di cui è il principale estrattore a livello globale, condividendo il più grande giacimento di gas naturale al mondo con l’Iran. Il contraltare dell’OPEC per il gas naturale, il GECF, è nato nel 2001 a Teheran su iniziativa russa e ha il suo quartier generale proprio a Doha. Poiché questi due Paesi, assieme alla Russia, costituiscono più della metà del mercato globale di gas naturale, è decisamente improbabile che Doha possa porsi su posizione anti-iraniane del livello di quelle saudite.

Consentire al Qatar di rientrare tra i Paesi del GCC e, presumibilmente, nel giro OPEC, rappresenta innanzitutto il tentativo da parte dei Paesi arabi e sunniti della regione di non creare una frattura insanabile con Doha, che a sua volta ha patito le conseguenze economiche sul mercato degli idrocarburi causate dalla pandemia di Coronavirus. La conseguenza naturale di un tale scenario sarebbe un pieno allineamento tra Qatar e Iran, una prospettiva disastrosa, soprattutto per l’Arabia Saudita, che con Doha condivide l’unico confine terrestre del piccolo emirato e si ritroverebbe ulteriormente accerchiata da Stati filoiraniani, con l’aggravante che il Qatar, rispetto a Iraq, Yemen e Siria, è uno Stato ricco e ben armato, nonostante le dimensioni ridotte. Di fronte a una prospettiva del genere, le questioni che hanno provocato l’embargo passano in secondo piano. Tra queste, rientrano le accuse lanciate al Qatar di tenere una politica ambigua a cavallo tra il blocco sunnita e l’Iran, a vantaggio soprattutto di quest’ultimo. Di fronte al profilarsi della crisi economica, gli Stati della coalizione si sono resi conto del potenziale paradosso per cui un perdurare dell’embargo avrebbe portato alla realizzazione delle paure per cui optarono, nel 2017, per il blocco verso Doha.

Proprio la questione iraniana e l’accesa rivalità tra le due sponde del Golfo costituiscono una seconda motivazione. I Paesi arabi del Golfo che hanno sostenuto l’embargo contro il Qatar, in particolar modo l’Arabia Saudita, dovranno ripensare a come mitigare in qualche modo il loro astio verso l’Iran. Negli ultimi quattro anni l’amministrazione Trump è stata il motore di azioni ostili verso Teheran, culminate con l’assassinio del generale iraniano Qasem Soleimani esattamente un anno fa. Gli Accordi di Abramo, ultimo traguardo raggiunto dalla gestione Trump per il Medio Oriente, è stato concepito anche per rafforzare la morsa su Teheran, avviando rapporti diplomatici formali tra Israele e diversi Stati arabi sunniti, tutti accomunati dall’ostilità verso l’Iran.

Non è ancora chiaro se Joe Biden continuerà nell’opera di espansione degli Accordi di Abramo coinvolgendo ulteriori Stati. È, d’altra parte, molto probabile che la nuova amministrazione americana cambierà decisamente registro verso l’Iran. In campagna elettorale Biden ha più volte dichiarato di voler riprendere l’agenda di politica estera avviata da Obama. La recente nomina di Robert Malley come inviato speciale per l’Iran è una prima, importante conferma della volontà del nuovo presidente di riprendere gli accordi sul nucleare siglati nel 2015 con l’Iran, dei quali Malley è stato tra i principali fautori. Intervistato recentemente dal Corriere della sera, Malley ha confermato in prima persona che Washington riprenderà i colloqui con l’Iran. Per i Paesi arabi del Golfo, e soprattutto per l’Arabia Saudita, questo nuovo corso da parte di Washington necessariamente porterà a una rimodulazione nelle strategie di contenimento iraniano, innanzitutto abbassando a loro volta il livello di tensione per non averne di ulteriori, e ben più gravi, con gli Stati Uniti stessi. Ecco, dunque, che il Qatar da “doppiogiochista” torna ad avere il ruolo chiave di Paese ponte tra il blocco sunnita e Teheran. La conclusione dell’embargo non poteva che essere il primo passo in tale direzione.

Un ulteriore aspetto alla radice dell’embargo e conclusosi in un nulla di fatto riguarda l’appoggio finanziario del Qatar a movimenti d’islamismo politico internazionali. Da anni Doha è oggetto di sospetti in merito al suo sostegno informale non solo a movimenti islamisti, ma a vere e proprie associazioni terroristiche. Per quanto concerne i Paesi della ex coalizione, l’accusa maggiore rivolta al Qatar riguarda l’appoggio ai Fratelli musulmani, uno dei più importanti movimenti islamisti a livello globale. Dietro le accuse di “sostegno al terrorismo”, questi Paesi hanno in realtà provato a interrompere i finanziamenti da Doha a un’associazione considerata pericolosa per la tenuta dei rispettivi governi interni; basti citare il caso dell’Egitto con l’ascesa di Muhammad Morsi, esponente di spicco dei Fratelli musulmani, alla presidenza e al successivo rovesciamento da parte del generale al-Sisi. Per tale ragione i governi di molti Paesi arabi hanno messo al bando i Fratelli musulmani, temendo la loro influenza soprattutto sulle frange più povere e conservatrici della società. Il motivo per cui anche questo aspetto è stato “dimenticato” nella riconciliazione con il Qatar può derivare dal fatto che nel corso degli ultimi anni, con le Primavere arabe ormai un lontano ricordo, il potenziale eversivo dei Fratelli musulmani appare notevolmente diminuito. Inoltre, similarmente ai rischi di una deviazione della politica estera qatariota verso l’Iran, i Paesi arabi della coalizione, in particolar modo l’Arabia Saudita, temono uno spostamento dei legami del Qatar verso la Turchia, potenza regionale in ascesa e apertamente a sostegno dell’islamismo politico in virtù del progetto di Erdoğan di trasformare il Paese nel campione delle cause islamiche sunnite in tutto il mondo. Nel 2017, Ankara inviò dei soldati in Qatar per prevenire ogni eventualità di un’azione militare da parte dell’Arabia Saudita per rovesciare il governo qatariota. Non solo, nelle fasi più problematiche dell’embargo per il Qatar, la Turchia si è prodigata per supportare l’emirato attraverso forniture alimentari; senza il sostengo di Ankara, con ogni probabilità il Qatar non sarebbe riuscito a resistere per più di tre anni.

Attualmente, una delle più grandi basi militari turche all’estero si trova proprio in Qatar, con circa cinquemila operativi al suo interno. Elemento che è stato apertamente denunciato dagli Emirati Arabi Uniti per mezzo di un tweet del ministro degli Esteri emiratino Anwar Gargash. Sempre rievocando le parole di Gargash, i Paesi arabi della regione non vogliono il ritorno della situazione “coloniale” durante il dominio ottomano nella regione durato per ben tre secoli. In virtù di ciò, la paura che il Qatar possa costituire una testa di ponte a favore della Turchia con ogni probabilità è stata un’ulteriore ragione per cui i Paesi della coalizione hanno deciso di tornare a più miti consigli.

Molti commentatori internazionali hanno giudicato questa svolta come una vittoria totale da parte del Qatar, che rientra nell’alveo del GCC senza cedere su nessuno dei punti mossi dai Paesi della coalizione. Di sicuro si tratta di un successo politico e mediatico per il giovane emiro Tamin bin Hamad al-Thani. Anche Mohammad bin Salman, leader de facto dell’Arabia Saudita e figura mediatica a livello internazionale, può celebrare questo successo riscattando un periodo difficile per la propria immagine per via, soprattutto, dell’assassinio del giornalista Khashoggi e del perdurare del pantano yemenita.

Per il Qatar si apre un nuovo corso che richiederà in ogni caso un impegno volto a ricucire gli strappi con gli alleati ritrovati. L’agenda del summit si è concentrata, in particolare, sull’esigenza di rafforzare la difesa comune attraverso la modifica dell’art. 6 dell’Accordo di difesa comune. Un obiettivo condiviso da tutti gli Stati del GCC per contenere l’impatto di potenze regionali ostili quali l’Iran e, più recentemente, la Turchia. La fine della linea dura di Trump verso l’Iran li ha messi di fronte alla necessità di costruire una rete di sicurezza il più possibile autonoma, in grado di operare anche senza l’appoggio di Washington. Il ruolo ambivalente di Doha può costituire non più un problema bensì un’occasione. Tuttavia, è presumibile aspettarsi che se al-Thani intende davvero dar seguito a questa riconciliazione, necessariamente dovrà attenuare la spregiudicatezza in politica estera che ha condotto all’embargo nel 2017. Per tutti i Paesi del GCC la formazione di un sistema di sicurezza internazionale comune costituisce una sfida molto importante e vitale, al pari della diversificazione economica.

Questo summit rappresenta un primo passo, ma la strada verso l’obiettivo posto dai Paesi del GCC appare piena di ostacoli, a cominciare dalle profonde differenze d’interessi in politica estera da parte degli Stati membri. Esempio per antonomasia è lo Yemen, che vede la contemporanea presenza di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar ciascuno con obiettivi differenti e in conflitto tra loro. Sarà una sfida in particolar modo per Riyad, che sarà messa alla prova tra la tentazione di cedere a compromessi con gli altri Paesi arabi del Golfo a favore di una maggiore forza comune di fronte ai rivali oppure perseverare nel tentativo di dettare legge, con il rischio di creare ulteriori fratture tra i Paesi del GCC come già è avvenuto nel 2017 con il Qatar. Ciò che appare certo è che da questo processo dipenderanno i destini politici della regione e, soprattutto, si sancirà se i Paesi della regione continueranno a godere dell’inedita autonomia di cui godono da mezzo secolo o torneranno a una situazione di sudditanza nei confronti di una potenza imperiale esterna, condizione che ha caratterizzato la regione per la quasi totalità della sua storia sin dall’epoca dei sumeri.

Immagine: Doha, Qatar (11 giugno 2020). Crediti: HasanZaidi / Shutterstock.com

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