Il partito Fidesz esce trionfatore dalle elezioni parlamentari in Ungheria, permettendo al suo leader Viktor Orbán di confermarsi alla guida del Paese per i prossimi quattro anni. Un successo duplice per Orbán, che non solo ricoprirà l’incarico di capo del governo per il quarto mandato consecutivo (il quinto in assoluto considerando anche il periodo tra 1998 e 2002), ma può anche fregiarsi di una vittoria di dimensioni quasi internazionali, visto il contesto in cui è giunta questa tornata elettorale. Il risultato finale del voto del 3 aprile ha visto Fidesz staccare di quasi 20 punti percentuali la coalizione formata da 6 partiti di opposizione e altri alleati minori, uniti nel tentativo di sconfiggere Orbán e porre fine a quella che viene considerata una deriva antidemocratica nel Paese dell’Europa centrale. La scommessa della lista Uniti per l’Ungheria non ha però pagato: sebbene i sondaggi nei mesi scorsi dessero il fronte dell’opposizione addirittura in vantaggio sul partito di governo, nelle ultime settimane sembrava prendere forma il divario nei confronti di Fidesz, divenuto ancora più evidente dall’esito delle urne. L’entusiasmo iniziale nella possibilità di ottenere una vittoria era associato all’ampia partecipazione popolare alle primarie tenute lo scorso autunno, con la vittoria di Péter Márki-Zay, esponente conservatore e sindaco della cittadina di Hódmezővásárhely. Già dopo poche settimane era però emersa la possibile instabilità del fronte unitario dell’opposizione: considerato il volto giusto per contendere elettori a Fidesz, Márki-Zay sembrava invece in difficoltà nel rappresentare l’anima più liberale e di sinistra della coalizione. I risultati delle elezioni hanno in parte confermato questa impressione: Uniti per l’Ungheria non ha raggiunto nemmeno il 40% dei consensi, vincendo praticamente solo nei collegi della capitale Budapest e delle città di Pécs e Szeged.
Dal canto loro Fidesz e gli alleati del Partito popolare cristiano democratico (KDNP, Kereszténydemokrata Néppárt) hanno superato il risultato del 2018, passando dal 49,27 a oltre il 53% dei consensi. In base al meccanismo elettorale vigente in Ungheria, la maggioranza di cui potrà godere Orbán nel Parlamento di Budapest sarà di 135 seggi, sufficienti a garantirgli ancora una volta una maggioranza di due terzi dell’assemblea nazionale e di poter quindi modificare la Costituzione. Oltre a Fidesz e alla coalizione di opposizione, occuperanno per la prima volta gli scranni dell’aula anche i nazionalisti del movimento Mi Hazánk, una costola di fuoriusciti dalla formazione di estrema destra Jobbik, che a sua volta era confluita nell’alleanza Uniti per l’Ungheria dopo aver moderato le proprie istanze.
In termini di politica interna, Orbán potrà proseguire i programmi già lanciati nei precedenti mandati, con una forte impronta assistenzialista, in particolare verso le famiglie e gli anziani. Tra le promesse fatte dal premier ungherese in campagna elettorale e le misure già entrate in vigore figurano rimborsi fiscali per i figli a carico, il taglio parziale dei contributi previdenziali e l’abolizione dell’imposta sul reddito per i cittadini al di sotto dei 25 anni, oltre a un aumento delle pensioni. Si tratta di un incremento della spesa pubblica che arriva però in un periodo non felicissimo per l’economia nazionale: l’inflazione potrebbe attestarsi ai livelli più alti degli ultimi 15 anni, mentre gli effetti della guerra nella vicina Ucraina e la disputa con l’Unione Europea (UE), che blocca allo stato attuale i finanziamenti per l’Ungheria previsti dal Piano di ripresa e resilienza, rischiano di rendere meno rosee che in passato le previsioni di crescita del PIL nel Paese. La stabilità economica potrebbe essere messa in discussione già nei prossimi mesi, rendendo difficile per il governo di Orbán mantenere le promesse elettorali senza aumentare contemporaneamente il debito pubblico, già in salita dopo la crisi pandemica. I timori dell’opposizione e di molti osservatori internazionali sono poi quelli relativi alla tenuta democratica dell’Ungheria, alla luce dei cambiamenti costituzionali imposti dalla maggioranza nel corso degli anni, che hanno limitato l’indipendenza del sistema giudiziario e la libertà di stampa, accentrando gran parte dei media sotto il controllo statale. A questo si aggiunge il tema della corruzione, avanzato dall’opposizione e da Márki-Zay nel corso della campagna elettorale: Orbán è accusato di aver favorito imprenditori e funzionari con cui ha legami di amicizia e parentela, creando una rete di potere che ha ormai ramificazioni in diversi settori dell’economia ungherese.
La disputa tra Budapest e l’Unione Europea nasce anche in merito allo Stato di diritto, a causa delle normative approvate dal Parlamento che promuovono una sostanziale discriminazione verso minoranze etniche e religiose, oltre che nei confronti della comunità LGBTI e la più generale intolleranza verso i migranti, ribadita dallo stesso Orbán in tutti i contesti. Il leitmotiv di Fidesz in questa campagna elettorale, così come nelle precedenti, è stato quello della difesa dell’Ungheria, patria dei valori cristiani, contro i tanti nemici esterni che provano ad «assediarla». Le parole di Orbán nel commentare la vittoria domenica sera sono state emblematiche: un colpo ad avversari «storici», come la sinistra internazionale, il filantropo di origini magiare George Soros e i burocrati di Bruxelles, ma anche «il presidente ucraino», ovvero quel Volodymyr Zelenskij che intervenendo all’ultimo Consiglio europeo ha accusato l’Ungheria e il suo leader di non prendere una posizione netta contro Vladimir Putin e la guerra d’invasione portata avanti dalla Russia. Del resto, il tema del conflitto in Ucraina è stato impiegato da Fidesz durante la campagna elettorale, accusando l’opposizione di voler trascinare il Paese verso l’intervento e di conseguenza alla rovina, facendone «pagare il prezzo» alle famiglie ungheresi.
Il ruolo ambiguo che Orbán e il suo governo stanno mantenendo in queste settimane ha però creato degli attriti evidenti con gli altri membri del Gruppo di Visegrád (V4), vale a dire Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. L’ultima riunione dei ministri della Difesa del V4, che si sarebbe dovuta tenere a Budapest la scorsa settimana, è stata infatti annullata per il boicottaggio deciso dai rappresentanti degli altri tre Paesi, proprio per il rifiuto del governo ungherese di consentire il transito sul proprio territorio delle armi inviate all’Ucraina. La frattura in seno al Gruppo di Visegrád è indicativa dell’isolamento che l’esecutivo di Orbán sta vivendo dall’inizio della guerra: la mancata volontà di “mollare” la Russia e i legami commerciali, energetici e politici instaurati con il Cremlino, rischia di far perdere all’Ungheria il principale alleato nella disputa contro l’UE, vale a dire la Polonia, con il governo conservatore di Diritto e giustizia. I prossimi mesi potrebbero dunque essere decisivi nel tracciare il percorso di Orbán e di Budapest in ambito europeo qualora si dovesse ulteriormente intensificare la pressione sanzionatoria di Bruxelles verso Mosca, costringendo definitivamente le autorità ungheresi a scegliere lo schieramento in cui posizionarsi.