Il seme delle rivolte
Albert Camus, nell’incipit del suo libro l’Uomo in rivolta diceva «La rivolta è una negazione che afferma […] È un No che libera da per rendere liberi di. Il No consegue a una subitanea presa di coscienza e stabilisce il limite che l’individuo non può tollerare venga oltrepassato senza che i suoi diritti siano violati».
Le rivolte arabe, anni dopo, hanno dimostrato l’attualità delle parole di Camus. Quel “No” è stato urlato a gran voce 17 dicembre del 2010, nella cittadina di Sidi Bouzid, nel ventre agricolo e affamato della Tunisia, dopo il gesto di protesta dell’ambulante Mohamed Bouazizi, datosi fuoco per la disperazione nel vedere sequestrato dalla polizia il proprio banco in cambio di una tangente.
Da allora niente sarebbe più stato più come prima, nel suo Paese e neanche in Egitto, Libia, Siria, Yemen e in tutti gli Stati maggiormente interessati dalle proteste.
Oggi, il nostro sguardo su quegli accadimenti è quantomeno disincantato ma allora, almeno per un attimo, i giovani, scesi a migliaia nelle piazze, credevano che da quelle rivolte sarebbe nata una rivoluzione, speravano che il loro dissenso avrebbe travolto il vecchio mondo dei rais per una nuova Nahda, capace di porre fine a decenni di quella che Samir Kassir chiamava «Infelicità araba».
Eppure, oggi, per la maggior parte degli studiosi, quelle rivolte sono fallite.
Libia, Egitto, Tunisia. Il fallimento delle rivolte arabe?
Cosa è accaduto da allora e perché? Per rispondere a queste domande è necessario guardare a cosa è avvenuto in alcuni degli Stati che più hanno vissuto i cambiamenti post-rivolte.. A iniziare dalla Tunisia, il Paese che viene appellato come “l’eccezione felice delle rivolte arabe”. A distanza di dieci anni dalla destituzione di Ben Ali, il Paese è ancora in una fase di transizione che lo rende fragile e che fa sì che rimangano in piedi tutte le incertezze legate all’effettiva riuscita del passaggio da un regime autoritario a un sistema pienamente democratico. A fare da sfondo a questa debolezza istituzionale permangono i problemi legati alla stagnazione economica, alle migrazioni e al terrorismo di matrice jihadista. Il post-rivolte tunisino è stato accompagnato da una preoccupante crisi economica, resa ancor più profonda dal crollo del settore turistico a causa degli attentati avvenuti, soprattutto, nel 2015 e, oggi, del Covid-19. Questo stato delle cose ha perpetuato l’esacerbarsi di tensioni sociali, specie nelle aree periferiche, sfociate spesso in manifestazioni violente. La povertà endemica ha spinto molti giovani a tentare la strada dell’immigrazione. Dei circa 33.000 migranti arrivati in Italia dal 1° gennaio al 16 dicembre di quest’anno, più di 12.000 hanno dichiarato di essere di nazionalità tunisina.
Un altro Paese interessato dalle rivolte è stato l’Egitto. La rivoluzione popolare del gennaio-febbraio 2011 è stata recuperata in modo veloce dai Fratelli musulmani, che sono riusciti a impadronirsi del potere. Il partito islamista Libertà e Giustizia è rimasto al potere solo un anno e non è stato in grado di rispondere alle aspettative del popolo; così non è stato difficile per l’esercito rovesciare la Fratellanza in favore dell’attuale presidente Abd al-Fattah al-Sisi. Da allora la situazione è ulteriormente degenerata: terrorismo e povertà diffusa continuano a segnare le sorti di un Paese in bilico tra minaccia jihadista e autoritarismo. Il prezzo di un Egitto politicamente stabile, minacciato nei suoi porosi confini da numerose organizzazioni terroristiche e incline a spregiudicate partnership commerciali con l’Occidente, è un sipario nero calato sui diritti umani: si stima che, nelle carceri egiziane ci siano oggi tra i 60.000 e i 100.000 prigionieri politici.
Infine la Libia, travolta da una guerra civile, non ha ancora trovato né pace né un barlume di stabilità. Innumerevoli milizie avversarie vi “spadroneggiano”. Il caos interno ha favorito l’ingresso di potenze regionali e internazionali, trasformando la ex Jamahiriya nel “ring dei pesi massimi stranieri”, primi tra tutti Turchia, Russia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti che, rifornendo di armi i loro alleati sul terreno, perpetuano le spaccature di un Paese che vira sempre più verso un failed State.
Conclusioni
Allo scoppio delle rivolte arabe molti affermarono che il mondo non sarebbe più stato lo stesso. La profezia si è in parte avverata: in dieci anni il Mediterraneo è cambiato, ma in peggio e non in meglio come ingenuamente si sperava. Dai cambiamenti di quella “primavera” sono sopravvissute, come realtà statuali, soltanto Tunisia ed Egitto. Al Cairo, tuttavia, nel 2013 c’è stata la presa di potere del generale al-Sisi, i cui effetti stanno ancora influendo sulla collocazione del Paese sulla scena internazionale. In altri Stati, come la Siria e la Libia, quei mutamenti hanno sortito tutt’altro effetto. Qui stiamo assistendo alla dissoluzione dei confini artificiali, creati dalle potenze coloniali a cavallo delle guerre mondiali, una dissoluzione di cui non conosciamo ancora le sorti. Volgendo lo sguardo verso i Paesi apparentemente più stabili, sarebbe illusorio credere che la Tunisia sia “l’eccezione felice delle primavere arabe” solo perché ha dimostrato una certa “maturità democratica”. Verrebbe da chiedersi: a cosa serve la maturità democratica se l’economia va a rotoli e i giovani si arruolano nelle fila delle organizzazioni jihadiste o fuggono rischiando la vita in mare per un futuro migliore? Come affermava Massimo Campanini, «le società civili nei Paesi arabi non sono immature ma deboli». La Tunisia e l’Egitto ci hanno insegnato che non vi è possibilità di condurre a buon fine una rivolta popolare, tanto meno una rivoluzione, se non esistono condizioni geopolitiche internazionali che ne garantiscano il terreno propizio di affermazione e se non esistono movimenti capaci di incanalare il disagio popolare verso un reale processo politico in grado di rappresentarne le istanze. E così è stato per i giovani che dieci anni fa erano scesi in piazza sperando che da quelle rivolte potesse nascere una nuova grande rivoluzione per il mondo arabo.