I caucus del Nevada non hanno riservato sorprese né scossoni: Bernie Sanders, il senatore del Vermont che rappresenta l’ala più radicale dell’elettorato democratico, ha vinto con un ampio margine grazie a un voto massiccio in suo favore dei giovani e degli ispanici. Il voto della minoranza destinata a crescere nei prossimi anni, fino a divenire un terzo della popolazione era prevedibile; a differenza di quello degli under 45, non era ancora chiaro in che misura si sarebbe spostato su di lui. Le assemblee del Nevada e il voto dei seggi sulla Strip di Las Vegas, la strada dei grandi alberghi e casinò dove sono impiegati, ci dicono che i latinos hanno scelto la proposta di Bernie: non solo i giovani latinos ‒ che avevano premiato Sanders anche nelle primarie del 2016 ‒, ma anche i lavoratori middle e lower class. E questo nonostante la Culinary Union, il sindacato degli addetti alle cucine e alle pulizie degli alberghi, non avesse dato il suo sostegno a nessun candidato e contrastasse l’idea di sanità pubblica avanzata dal senatore. Se si escludono gli over 65, Bernie è primo in ogni gruppo di età e in ogni minoranza (anche la “grande minoranza” bianca, che in Nevada rappresenta meno del 50% della popolazione).

Dietro a Sanders regna l’incertezza

Dietro a Sanders il campo rimane frammentato e diviso. E questa è la grande forza del senatore del Vermont. Nessuno degli altri candidati supera il 20%, con Biden e Buttigieg appaiati dopo la seconda scelta, ma con l’ex vicepresidente che per i meccanismi di allocazione dei delegati appare raccoglierne un numero più alto. Male le due donne: Klobuchar sotto al 10% e Warren sotto al 15%. La vittoria nel dibattito TV di Las Vegas non ha giovato alla senatrice del Massachusetts, anche perché metà degli elettori aveva già votato prima dell’andata in onda. Warren è decisa a tirare avanti almeno fino al Super Tuesday (il 3 marzo) nella speranza che la sua proposta radicale e il messaggio che la vede descriversi come una candidata unitaria siano in grado di raccogliere consensi. La verità è che il voto più di sinistra sembra essersi schierato quasi tutto con Sanders, mentre Warren non appare capace di attrarre il voto delle donne in misura tale da farle fare un balzo in avanti. I democratici, insomma, escono dai caucus del Nevada con gli stessi problemi con i quali sono entrati. E il voto di sabato prossimo in South Carolina non cambierà le cose: nello Stato del Sud dove gli afroamericani sono la maggioranza degli elettori democratici Biden rimane in testa ai sondaggi, inseguito da Sanders. Il Super Tuesday forse porterà chiarezza su chi sia la possibile alternativa, poiché quel giorno sarà la prima prova elettorale di Michael Bloomberg e della sua campagna elettorale miliardaria e tutta nazionale.

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La bassa partecipazione al voto è un campanello d’allarme

Guardando i dati in profondità scopriamo che la partecipazione di ispanici e giovani alle assemblee del Nevada è stata più bassa che nel 2016, quando a sfidarsi erano Sanders e Hillary Clinton. Questo è un limite per la campagna Sanders che promette di portare alle urne segmenti di popolazione che normalmente non votano e, così, sconfiggere Trump alle elezioni generali. Un limite già riscontrato in New Hampshire: grande entusiasmo dei giovani militanti, ma mancato aumento della partecipazione giovanile al voto.  La coalizione di Sanders è identica a quella del 2016 cui si sommano percentuali più alte di voto ispanico ‒ nel 2016 Clinton vinse solo tra gli afroamericani. Un voto cercato con grande impegno dalla campagna che aveva anche una ispanica importante da schierare come Alexandria Ocasio-Cortez.

Abbiamo detto della delusione per Warren e del buon risultato di Buttigieg. Ma anche questo presenta dei problemi: tra gli afroamericani, l’ex sindaco di South Bend è ultimo dietro a Klobuchar. E un candidato democratico che non piace agli afroamericani difficilmente può diventare presidente. Il che complica il problema dell’alternativa moderata a Sanders. Se Buttigieg appare come la carta migliore e non perde occasione per segnalare il “pericolo Bernie”, come ha fatto nel discorso di concessione della vittoria in Nevada, Biden è colui che aggrega voti afroamericani. Ma l’ex vicepresidente, fino a oggi, è apparso un candidato stanco e senza un messaggio che non sia “sono stato il vice di Obama, ho esperienza”. E lo stesso Bloomberg, nello stesso segmento di elettorato, è ancora tutto da testare.

Quale compromesso dopo il Super Tuesday?

Il Super Tuesday ci dirà se l’ala moderata del Partito democratico è in grado di esprimere un’alternativa a Sanders che non sia un ripiego, dovuto alla paura che le idee radicali del senatore prevalgano. A oggi una parte consistente degli elettori democratici è attratta proprio dal suo messaggio di cambiamento e anche da alcune sue proposte specifiche: quasi la metà degli elettori del Nevada ritiene che la sanità sia il problema principale e un’ampia maggioranza è favorevole alla sanità pubblica – che nessun presidente, allo stato delle cose, sarà in grado di far approvare dal Congresso dopo le elezioni del 2020.

Subito prima del voto, il senatore ha twittato una frase dura contro il partito per il quale punta a candidarsi: «Ho una notizia per l’establishment repubblicano. Ho notizie per l’establishment democratico. Non possono fermarci».

Se sommiamo questo atteggiamento alla mancata crescita della partecipazione al voto, individuiamo il problema di Sanders. Senza ampliare la propria base rischia di arrivare alla Convention come il primo dei votati, ma molto lontano dal 50% dei delegati che servono per ottenere la nomination al primo voto. Saprà trovare una strada e un modo di proporsi per parlare anche a chi non lo vota ed è preoccupato che una sua candidatura favorisca la rielezione di Trump? La sfida per lui rimane questa.

Una persona a cui è chiaro questo aspetto è il presidente Trump, che in più di un’occasione ha ripetuto frasi come quelle dette immediatamente dopo il Nevada: «Mi auguro che trattino Sanders equamente, perché ci sono un sacco di cose strane…mi auguro che non finisca vittima di un accordo truccato». Il presidente mira a seminare sospetti nella base del senatore del Vermont nella speranza che in caso di sconfitta alle primarie, questa non si presenti alle urne a novembre.

Per i suoi avversari, come abbiamo detto, il problema è individuare un’alternativa credibile che al momento non appare esserci. Con un quadro siffatto la prospettiva di arrivare a una convention senza un vincitore certo diventa probabile. Ai democratici servirebbe una figura in grado di radunare gli oppositori di Sanders e convincerli (dati e sondaggi alla mano) a ritirarsi tutti tranne uno, ma anche di siglare con Bernie un patto che arrotondi gli spigoli della sua campagna. Per come funziona la politica statunitense, però, una figura così non esiste. E il modello di competizione delle primarie non agevola compromessi.

Immagine: Bernie Sanders parla ai sostenitori durante la campagna presidenziale 2020, Richmond (California), Stati Uniti (17 febbraio 2020). Crediti: Sterling Munksgard / Shutterstock.com

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