Il prossimo G20 ad Osaka in Giappone sarà probabilmente l’ennesimo round di un confronto sempre più serrato tra i due giganti dell’economia mondiale, USA e Cina.

Secondo gli ultimi auspici via Twitter del presidente Trump, il confronto può trasformarsi in un incontro che potrebbe evitare un’ulteriore escalation di una guerra commerciale che sta ridefinendo il commercio globale e non solo.

La presidenza Trump infatti ha finora utilizzato ad ampio spettro la leva dei dazi, anche solo come minaccia, in ambiti diversi, dai pannelli solari, all’acciaio e all’alluminio, fino a brandirli contro l’immigrazione illegale messicana. Nelle diverse fasi di questa sorta di neoprotezionismo trumpiano sono stati colpiti diversi Paesi, oltre alla Cina, come, ad esempio, nel caso dell’acciaio e dell’alluminio, Canada, Messico, Turchia e India,  insieme ai membri dell’Unione Europea.

Scelte, quelle dell’amministrazione americana, che hanno portato a controversie legali di fronte all’Organizzazione mondiale del commercio****, ad esempio, nel caso dei pannelli solari, a rappresaglie commerciali, da ultimo l’incremento del 70% delle tariffe indiane nei confronti di beni provenienti dagli Stati Uniti, alla ricerca di nuovi accordi commerciali come quello firmato, ma non ancora ratificato, tra Canada, Messico e Stati Uniti che sostituirà il NAFTA, e finanche all’autorizzazione a sussidi a favore degli agricoltori USA da parte del governo statunitense fino a 12 miliardi di dollari, per compensare le perdite in termini di esportazioni a seguito delle ritorsioni commerciali di altri Paesi, Cina in testa, utilizzando strumenti, come la Commodity Credit Corporation, adottati da Roosevelt durante la grande depressione, per nemesi della storia.

Ad ogni modo, il principale contendente di questo confronto commerciale avviato dal presidente Trump è senza alcun dubbio la Cina.

Il gioco tra le due potenze globali si è fatto progressivamente sempre più duro. Per rappresentare solo le ultime puntate, il 10 maggio scorso l’amministrazione americana ha incrementato dal 10 al 25% le tariffe su circa 200 miliardi di dollari di importazioni, in particolare quelle relative a beni intermedi come componentistica per automobili e computer e beni finali, tra cui la telefonia, introdotte a settembre 2018, che si aggiungevano ad altri 50 miliardi di dollari di importazioni in macchinari, attrezzature elettriche e altri beni capitali  già sottoposti nel corso del 2018 a dazi del 25%.

La Cina ha risposto nel corso del tempo con una serie di incrementi dei propri dazi, culminati lo scorso 1 giugno con l’aumento delle tariffe su 36 dei 60 miliardi di beni da sottoporre a dazi annunciati a settembre 2018, che si sommano alla rappresaglia commerciale da 50 miliardi già adottata in precedenza, che porta una tariffa media di circa il 21% per i prodotti provenienti dagli Stati Uniti. A fronte della durezza di Washington, Pechino sembra inoltre aver cercato di ammorbidire il resto del mondo, e in particolare i concorrenti del sistema americano, riducendo seppur di poco i propri dazi nei loro confronti.

Si attende il prossimo G20 per capire se l’escalation si fermerà oppure se Trump deciderà di dar seguito alla minaccia di estendere i dazi del 25% al resto delle importazioni cinesi, con conseguente reazione della Repubblica Popolare ancora da definire.

In realtà le grandezze in gioco in questo scontro commerciale, se lette alla luce delle dimensioni delle economie delle due superpotenze, sembrano relativamente contenute. Secondo i dati del Census Bureau, infatti, nel 2018 gli Stati Uniti hanno importato dalla Cina circa 539 miliardi di dollari di beni che corrispondono a circa il 4% del PIL annuo cinese, a fronte di esportazioni per circa 120 miliardi, pari allo 0,6% del PIL americano, per un disavanzo commerciale a stelle e strisce di circa 419 miliardi di dollari: una cifra assolutamente importante, ma che pesa solo per il 2% del PIL USA e che viceversa è pari a circa il 3% di quello cinese. Forse un po’ poco per giustificare lo scontro al calor bianco tra l’amministrazione Trump e la Repubblica popolare di Xi Jinping.

La guerra commerciale d’altra parte sembra essere solo uno dei terreni di gioco su cui si fronteggiano, aspramente, Stati Uniti e Cina.

Un altro fronte caldo è quello della possibile guerra delle valute, con il tweet di Trump, da un lato, che ha investito in pieno l’Unione Europea e il presidente della sua Banca centrale Mario Draghi e il Rapporto del Tesoro americano sulle politiche macroeconomiche e del cambio dei principali partner commerciali degli USA di maggio che, dall’altro, esprime preoccupazione per le pratiche valutarie cinesi poco trasparenti e in particolare per il renminbi svalutato rispetto al dollaro a fini di competitività del sistema cinese, secondo l’accusa americana.

Per non parlare della competizione tecnologica, in realtà di non breve momento, che trova nella vicenda Huawei un caso paradigmatico per i potenziali effetti distruttivi per intere aziende globali dello scontro in atto. La posta in gioco infatti appare molto elevata: la strategia di politica industriale “Made in China 2025”, avviata nel 2015, si pone l’obiettivo esplicito entro il 2045 di rendere la Cina il leader mondiale nella manifattura tecnologicamente avanzata e ad alto valore aggiunto. Ovviamente una minaccia considerata esiziale dagli Stati Uniti che ricoprono questo ruolo a livello globale, suffragata dalle preoccupazioni dell’intelligence americana sui rischi della competizione per l’attrazione dei cervelli e per l’acquisizione sempre più ampia, più o meno legale, di proprietà intellettuale a stelle e strisce da parte del sistema produttivo e tecnologico cinese, con i conseguenti effetti in termini di sicurezza nazionale.

Come due facce di una stessa medaglia, la volontà cinese di raggiungere nel futuro la leadership produttiva globale si combina con la necessità nel presente di ridurre la propria dipendenza tecnologica dall’estero, che gli Stati Uniti cercano di contrastare con appositi interventi normativi come l’Export Control Reform Act e il Foreign Investment Risk Review Modernization Act introdotti nel 2018, rispettivamente per controllare le esportazioni in particolare di tecnologia e per sottoporre a un più stretto scrutinio da parte del Committee on Foreign Investment in the United States (CFIUS) le operazioni di fusione, acquisizione e di investimento estero negli Stati Uniti.

L’azione geopolitica della Cina comprende anche una sorta di competizione infrastrutturale, con la famosa Belt and Road Initiative attraverso la quale il presidente Xi sembra orientato a dare una nuova forma cinese ai flussi commerciali e alle relazioni economiche globali, sebbene i rischi economico-finanziari non manchino per la Repubblica Popolare, che alcuni commentatori considerano una risposta al ri-orientamento strategico obamiano verso il Pacifico e in particolare al cosiddetto “Pivot to Asia” portato avanti da Hillary Clinton probabilmente in un’ottica di contenimento cinese.

Che il confronto Cina-Stati Uniti, a tutto campo, sarebbe stato una delle cifre caratterizzanti l’amministrazione Trump è stato chiaro a tutti praticamente da subito e messo nero su bianco nel National Security Strategy del 2017, con cui la Casa Bianca ha di fatto definito la Repubblica di Xi uno “strategic competitor” con cui confrontarsi praticamente in ogni ambito per la difesa degli interessi e dei valori americani. Un approccio peraltro non nuovo, già adottato da George W. Bush nel 2001 prima di virare verso un tentativo di partnership globale al pari della fase iniziale della presidenza Obama.

In fondo, come Kissinger ci ricorda in Ordine mondiale, è passato un secolo e mezzo da quando l’imperatore cinese scriveva ad Abramo Lincoln nel 1863 per rassicurarlo che «Avendo, con riverenza, ricevuto dal Cielo il mandato di governare l’universo, consideriamo sia l’impero di mezzo, sia i paesi esterni membri di un’unica famiglia, senza alcuna distinzione» e sottoposti quindi alla comune benevolenza, ma anche al comune controllo.

Oggi da entrambe le parti di benevolenza non se ne intravede molta, anzi sembra in corso una fase di conflitto per l’egemonia.

Se questo sia tradurrà nella ridefinizione di una globalizzazione finora a stelle e strisce, nel preludio di una nuova guerra fredda o nella creazione di un ordine internazionale basato su un G2 piuttosto che su un G20 al momento non è dato sapere. Quello che è certo è che riguarda e riguarderà tutti, Europa in primis, ma quello che dobbiamo sperare, per dirla con Kissinger, è nella ricerca di un nuovo equilibrio di moderazione, forza e legittimità da parte di uomini di Stato saggi, «perché al di fuori di esse si profila il disastro».

Immagine: Donald Trump e Xi Jinping, Germania (8 luglio 2017). Crediti: Official White House. Photo by Shealah Craighead [Public Domain Mark 1.0], attraverso www.flickr.com

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