Stati Uniti e Iran procedono a uno scambio di prigionieri con la mediazione di Qatar e Oman. Cinque cittadini americani di origine iraniana, accusati di spionaggio contro cinque iraniani condannati, o rinviati a giudizio, per violazione delle sanzioni che, nel corso del tempo, sono state adottate nei confronti del regime di Teheran. L’accordo prevede anche lo sblocco di 6 miliardi di dollari fermi in Corea del Sud, che Seoul doveva a Teheran per acquisti di petrolio, ora trasferiti in conti iraniani in Qatar. Formalmente questi fondi dovrebbero essere spesi per cibo e medicine ma gli iraniani rivendicano già, sovranamente, di farne l’uso che ritengono opportuno. È lo stesso presidente iraniano Ebrahim Raisi ad affermare che l’Iran «li spenderà ovunque ne avrà bisogno».
Al di là degli aspetti etici di questo tipo di scambi ‒ la “politica degli ostaggi” è storicamente uno strumento di pressione della Repubblica Islamica ‒, e delle considerazioni sulla loro moralità, requisito che, nel regno della Realpolitik per eccellenza come la politica internazionale, lascia spesso il passo a più crude valutazioni, è evidente imbarazzo dell’amministrazione Biden ‒ che pure annuncia di voler continuare a colpire Teheran e sanziona, così, l’ex presidente Ahmadinejad e il ministero dell’intelligence ‒, per una scelta criticata sia da settori democratici, sia dai repubblicani, per aver «ceduto al ricatto» e contribuito a finanziare un regime «destabilizzatore».
Accordo emerso palesemente, dopo lunghe trattative, non a caso nei giorni in cui ricorre l’anniversario della morte di Mahsa Amini e dell’inizio della rivolta che ne è seguita, nel momento in cui Raisi si trova a New York per l’assemblea generale dell’ONU: circostanza e palcoscenico che il presidente iraniano intende sfruttare per esaltare la stabilità del regime e l’impossibilità di ignoralo nell’arena internazionale. Imbarazzo, quello del presidente americano, che non può, comunque, celare il fatto che negli ultimi mesi la politica di Washington nei confronti di Teheran ha dato segnali, se non di apertura, certo di minore irrigidimento.
Lontano dallo sguardo dei media, a registrare la meno infuocata temperatura tra USA e Iran è il pomo della discordia per eccellenza, la questione del nucleare di Teheran, divenuto dopo la rottura del trattato voluta da Trump nel maggio 2018, incandescente punto di scontro. Nonostante la flotta USA a Hormuz, è infatti allo Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), l’accordo sulla riduzione del programma nucleare iraniano, firmato nel 2015 da Cina, Francia, Gran Bretagna, Germania, Russia, Stati Uniti, Iran ed Unione Europea, che occorre guardare per capire lo stato delle relazioni tra i due Paesi.
Il silenzio sceso, anche mediaticamente, su questo fronte ha motivazioni tanto sottaciute quanto realistiche. Con la mediazione di Qatar e Oman, non a caso gli stessi Paesi che hanno creato la cornice dello scambio tra prigionieri, si è giunti tra USA e Iran a una sorta di “inconfessabile” intesa sul nucleare, che ha riportato l’arricchimento dell’uranio entro la soglia critica del 60%, condotto allo spegnimento di alcune centrifughe e alla ripresa delle ispezioni dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA). Una tacita de-escalation che ha consentito a Biden di evitare un passaggio al Congresso che poteva risultare problematico. In cambio della minor pressione americana su quello che è sempre stato ritenuto il possibile casus belli, l’Iran si è impegnato a non mettere a rischio le truppe americane in Iraq e a non ostacolare il traffico marittimo nel Golfo. A loro volta, gli USA si asterrebbero dall’adottare nuove, efficaci, pesanti, sanzioni contro l’Iran: non possono certo essere ritenute tali quelle, di facciata, appena varate nei confronti di esponenti e strutture del regime notoriamente ostili. Insomma, al di là della reciproca propaganda, lo scenario rivela una fase nuova, allo stato embrionale ma già evidente, imperniata non su obiettivi desiderabili ma su quelli possibili.
L’amministrazione Biden era inizialmente propensa a un ritorno all’accordo siglato da Obama nel 2015. Obiettivo irrealizzabile non solo per le prevedibili resistenze al Campidoglio, ma anche per la richiesta iraniana di avere la garanzia che, in caso di ritorno di Trump, o chi per esso, alla Casa Bianca, nulla sarebbe cambiato. Ipotesi che aveva un’altra controindicazione: avrebbe rilegittimato il regime iraniano mentre nel Paese era in corso una protesta che lo delegittimava. Esclusa l’ipotesi opposta, risolvere definitivamente la questione con un attacco che avrebbe avuto un impatto incontrollabile anche tra gli alleati mediorientali, l’opzione praticabile è stata quella di lasciare aperta la vicenda del nucleare riducendone l’impatto. E rinviando al futuro la sua soluzione.
Un pragmatismo che, nonostante i proclami sul “complotto esterno”, l’Iran ritiene possa riverberarsi positivamente anche sul piano interno. La scelta americana, anche per mancanza di interlocutori, di non puntare, nella rivolta esplosa un anno fa, su una precisa figura o gruppo ‒ mancano leadership interne ed è difficile ritenere solidi e credibili, per il ruolo svolto in passato, quelle esterne di Reza Pahlavi jr., erede della dinastia abbattuta dalla rivoluzione del 1979, o di Maryam Rajavi, leader dei Mojahedin e-Khalq ‒ è ritenuta dal regime un vantaggio da sfruttare.
Reggerà questa fase, favorita nella regione anche dal miglioramento dei rapporti tra Iran e Arabia Saudita o l’aggravarsi delle tensioni internazionali su scala mondiale ‒ l’Iran resta, comunque, vicino a Russia e Cina ‒ e interne riproporrà presto consolidate fratture?