La Befana, anzi, come nella tradizione spagnola, i re magi, porteranno in dono alla Spagna il governo. Dopo la deliberazione del Consell nacional di Esquerra republicana de Catalunya (ERC) di ieri è ormai certo che l’accordo con gli indipendentisti di ERC riuscirà a reggere alla prova dell’Aula e il primo governo di coalizione della storia della moderna democrazia spagnola potrà essere varato. Per vedere la luce la coalizione tra il Partido socialista obrero español (PSOE) e Unidas podemos (UP) necessita dell’appoggio, o dell’astensione “benigna”, di altri gruppi parlamentari. Le condizioni, dopo la ripetizione del voto a novembre, sono state più difficili rispetto alla scorsa estate, quando Pedro Sánchez decise di riportare il Paese alle urne. Il voto ha sancito il fallimento della scommessa: non ha rafforzato il PSOE, il Partido popular (PP) ha frenato la discesa e consolidato la seconda posizione, l’estrema destra di Vox è diventata la terza forza parlamentare, il crollo di Ciudadanos ha chiuso ogni alternativa al patto tra le sinistre. Condizioni più difficili, dunque, ma obbligate.

Non sappiamo, e forse non sapremo mai, i reali motivi della scelta di Sánchez. Se l’ostinato rifiuto a compiere il chiaro mandato elettorale di maggio per un governo delle sinistre sia stato determinato dalla convinzione, errata, di trarne un vantaggio o se le pressioni, dentro e fuori al PSOE ‒ in particolare nei settori economici e mediatici che lo stesso segretario socialista aveva denunciato come “mandanti” della fronda interna che nel 2016 lo portò alle dimissioni ‒ lo abbiano costretto al nuovo passaggio elettorale per creare le condizioni di indispensabilità di un governo non più rimandabile per un Paese che da due anni non vara una legge di bilancio. Fatto sta che fra poco il governo delle sinistre vedrà la luce.

La navigazione verso la nascita dell’esecutivo ha dovuto superare diversi scogli: l’accordo con UP, la convergenza di altri gruppi parlamentari e il dialogo con ERC. L’ultimo punto, il più controverso, ha oscurato le difficoltà degli altri due.

Questa volta PSOE e UP hanno affrontato il momento con adeguata responsabilità, rifuggendo le dichiarazioni roboanti e gli ultimatum in favore di telecamera. Dialogando fittamente lontano dai riflettori entrambe le leadership hanno agito nella consapevolezza di essere davanti all’ultima chance per non essere travolte dal fallimento politico. Il risultato è un programma di governo di stampo socialdemocratico che prevede aumenti delle pensioni e del salario minimo orario, la possibilità per gli enti locali di varare misure di regolazione degli affitti, l’introduzione di un “salario minimo vitale”, un aiuto al reddito per le persone in situazioni economicamente svantaggiate, l’abbassamento delle imposte per le piccole e medie imprese, l’aumento dell’1% delle pensioni e del 2% dei salari del settore pubblico, oltre al rafforzamento dell’educazione e della sanità pubbliche. Misure annunciate che dipendono dalle coperture di bilancio ‒ per le quali si confida nell’aumento delle entrate di un’IRPEF maggiorata per i redditi più alti, della tassazione di quote della rendita immobiliare prima ignorate dal fisco e del recupero dell’evasione e dell’elusione fiscale ‒ e che hanno visto lo scetticismo della Confindustria spagnola e sono state definite da programma elettorale più che di governo. Accuse alle quali l’alleanza PSOE-UP ha risposto dicendo che si tratta di un programma di legislatura, da attuare gradatamente nella verifica delle condizioni di fattibilità e, soprattutto, contando sul dialogo e la disponibilità dell’Unione Europea.

L’appoggio dei gruppi parlamentari dei nazionalisti baschi e galiziani e di altre liste minori non dovrebbe essere un problema, malgrado alcune dichiarazioni tattiche di questi giorni. Il vero nodo era la posizione degli indipendentisti catalani di ERC.

Il 20 dicembre la formazione ha tenuto il suo congresso e oltre il 90% della base ha appoggiato la direzione del partito nella scelta di facilitare l’investitura di Pedro Sánchez. Un risultato non scontato perché la posta in gioco era la fine dell’unilateralismo in favore dell’apertura di un dialogo con Madrid, un cambiamento strategico che rompe il fronte indipendentista catalano, la cui unità è ormai solo di facciata malgrado il governo in comune della Generalitat catalana. Un cambiamento che, soprattutto, impone un cambio di paradigma e l’archiviazione di un lessico “magico” che ha descritto come realistica, auspicabile e utile per la Catalogna la strada dell’indipendenza.

Un percorso molto difficile, ancor più nella resa dei conti in atto nell’indipendentismo tra ERC e Junts per Catalunya (JxC), nella quale hanno ormai cittadinanza concetti come “tradimento”. Dal carcere è dovuto intervenire il leader del partito, Oriol Junqueras, condannato a 13 anni, per imporre ai “massimalisti” la nuova linea e rafforzare la dirigenza davanti alla base spaesata. «La negoziazione tra Psoe e Erc non si deve fermare in nessun caso. Bisogna essere disposti a dialogare sempre, indipendentemente dal fatto che io stia o meno in carcere», ha detto in una intervista a Catalunya ràdio, mentre il partito bloccava il dialogo in attesa della posizione dell’Avvocatura di Stato dopo la sentenza del Tribunale di giustizia dell’Unione europea che ha sancito che i diritti e le prerogative di Junqueras come eurodeputato non erano stati rispettati dalla giustizia spagnola.

La sentenza ha contribuito molto al prosieguo della tessitura degli accordi per il governo, dando a Sánchez strumenti per cambiare ulteriormente il passo del suo esecutivo rispetto al precedente governo del PP. Il dispositivo, che ha sancito la divisione dei poteri e l’autogoverno del Parlamento, in questo caso europeo, è stato immediatamente accolto dal presidente David Sassoli. «È una sentenza molto importante che interessa direttamente la composizione di questa istituzione», ha detto in Aula comunicandola ai deputati. La Corte ha demandato al Tribunale supremo spagnolo la risoluzione della questione, nel rispetto dei paletti imposti. Il Supremo ha chiesto alle parti un parere e l’Avvocatura il 30 dicembre ha espresso il suo, ossia che Junqueras ha diritto di partecipare alle sedute dell’Europarlamento, invitando il Tribunale supremo a chiedere all’istituzione europea la revoca delle immunità parlamentari, come sancito dalla sentenza di Strasburgo.

La nuova proposta di un “indipendentismo pragmatico” di ERC ha ora gambe più forti su cui camminare, la possibilità di un miglioramento delle condizioni carcerarie degli indipendentisti condannati, l’apertura di un tavolo di confronto tra il governo di Madrid e quello catalano, il più possibile presentabile come un tavolo tra pari. In questo modo il partito si pone alla testa dell’iniziativa nel fronte indipendentista, lasciando JxC dell’ex presidente autoesiliato in Belgio, Carles Puigdemont, a giocare di rimessa. Contraria all’appoggio al varo dell’esecutivo Sánchez, che la lascia in secondo piano, JxC e Puigdemont prendono le misure col fatto di non essere riusciti a far fallire la trattativa e che i catalani sembrano ormai “stanchi di guerra”, lasciando aperto uno spiraglio alla partecipazione al tavolo di dialogo. L’esecutivo dovrà stare attento a questo settore catalano e alle destre spagnole, che già sparano ad alzo zero, evocando processi per Sánchez che vara il governo coi voti dei «golpisti catalani».

Il “governo dei re magi” è in dirittura di arrivo. Durerà certamente fino al varo della Legge di bilancio, ma per diventare «di legislatura», come annunciato da Pedro Sánchez e Pablo Iglesias, dovrà mettere mani e cuore nell’ingarbugliata matassa della crisi spagnola, la crisi di una democrazia rappresentativa in uno Stato plurinazionale della quale la questione catalana è il più evidente e devastante sintomo. Una crisi europea, della cui portata anche l’Europa, almeno i suoi tribunali e il Parlamento, sembra essersi resa conto.

Immagine: Pedro Sánchez a Bruxelles, Belgio (28 maggio 2019). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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