Il più giovane Paese al mondo, nato nel 2011 a seguito dell’indipendenza dal Sudan, fatica a divenire un adulto pacifico e definitivamente democratico. Il Sud Sudan, neanche il tempo di festeggiare l’emancipazione da Khartoum, dal 2013 è entrato nel vicolo cieco della guerra civile che strema la popolazione e rende il luogo uno dei peggiori in cui nascere e vivere al mondo, e da cui non riesce a uscire del tutto. Secondo alcune stime i morti sarebbero oltre 400 mila, mentre gli sfollati interni ed esterni circa 2 milioni e 300 mila. Nella classifica dei Paesi da cui più si fugge al mondo, il Sud Sudan viene solo dopo Siria, Venezuela e Afghanistan, e, oltre a instabilità, insicurezza, pericolo e violenze, la popolazione è stretta nella morsa di fenomeni atmosferici avversi o siccità che risultano un vero e proprio paradosso: il Paese è ricchissimo di risorse naturali e rigoglioso, ma l’impossibilità per contadini e allevatori di coltivare e occuparsi del bestiame regolarmente, specie in alcune zone, a causa di scontri e continui spostamenti obbligati, ha reso il terreno improduttivo e non adatto al pascolo. Il risultato è che tra scontri armati, alluvioni e carestia, in questi ultimi mesi, il Sud Sudan è precipitato nel peggior stato di insicurezza alimentare della sua storia, con 7,7 milioni di persone a rischio fame, circa il 63% della popolazione.

Nel corso degli ultimi anni, però, il Sud Sudan ha conosciuto momenti di dialogo e trattativa che hanno portato cambiamenti reali e fatto imboccare al Paese una via concreta verso la pace. I due partiti che rappresentano le principali fazioni in lotta sono quelli di Salva Kiir Mayardit ‒ il Movimento di liberazione del popolo del Sudan (SPLM, Sudan People’s Liberation Movement) ‒ e Riek Machar ‒ il Movimento di liberazione del popolo del Sudan-in opposizione (SPLM-IO, Sudan People’s Liberation Movement-In Opposition) ‒, che al momento ricoprono rispettivamente le cariche di presidente e vice. Dal 2013 ad oggi hanno preso parte di continuo a tavoli negoziali dai quali uscivano più nemici di prima. Dal 2018, invece, le cose sono cambiate. Nel settembre di quell’anno, al termine di lunghe trattative, le fazioni in lotta (non tutte, alcune hanno scelto di rimanere fuori dall’accordo) hanno siglato il Revitalized Agreement on the Resolution of the Conflict in South Sudan, una storica intesa per porre fine alla guerra fratricida. Da allora si è iniziato un percorso tortuoso per la formazione di governi nazionale e locali in grado di coinvolgere partiti, etnie, gruppi armati che non è mai arrivato a garantire la totale assenza di scontri ma ha innescato un cammino che risulta senza dubbio il più duraturo e serio dal 2013 a oggi. Il che, purtroppo, non ha evitato il perpetrarsi di scontri feroci, specie nello Stato dell’Equatoria, che hanno prodotto nuovi sfollati e costretto decine di migliaia di individui a vivere nel terrore. Sballottato o addirittura non considerato in alcune aree, l’accordo, però, si può dire che nella sostanza tenga.

A instaurare un clima di distensione, ha contribuito in maniera netta, la Chiesa cattolica, più specificamente, il papa. Francesco segue fin dall’inizio del suo pontificato le vicende del Paese africano. Ha organizzato momenti di riflessione e preghiera, reitera appelli per la pace e il dialogo agli Angelus domenicali, e ripete da anni l’intenzione di recarsi in visita nel Paese. Ma il gesto più clamoroso da lui inscenato si consuma in Vaticano nella Pasqua del 2019, esattamente tre anni fa. Al fine di corroborare l’Agreement siglato qualche mese prima e rafforzare l’impegno verso la pace nei capi delle fazioni politiche e religiose sudsudanesi, di concerto con Justin Welby, primate della Chiesa anglicana, il papa invita a Roma per un ritiro spirituale (il Sud Sudan è un Paese a stragrande maggioranza cristiano e la fede religiosa è uno dei motivi alla base dell’indipendenza dal Sudan musulmano) Salva Kiir Mayardit, Riek Machar, assieme a una serie di altri politici e rappresentanti del clero sudsudanese. È l’11 aprile e, oltre che alla Pasqua, la data è vicina all’entrata in vigore ufficiale dell’accordo, il 12 maggio: Francesco lo sa e teme un deragliamento dell’ultimo minuto. Finito l’incontro, tra l’incredulità degli astanti, si inginocchia e bacia i piedi degli ospiti: «Ve lo chiedo come fratello, restate nella pace. Avete iniziato un processo, non lasciatelo cadere» dirà ai presenti prostrato. «Dopo oggi ‒ dichiareranno i leader politici presenti ancora sconvolti dal gesto ‒ chi penserà di uccidere saprà che lo farà davanti al mondo».

A settembre dello stesso anno, 12 mesi esatti dopo l’Agreement, si raggiunge un accordo sulla composizione del governo transitorio di unità nazionale e si punta ad implementarlo a partire dalla politica. I tentennamenti e i rimandi, però, faranno traballare l’intesa e contribuiranno a risvegliare conflitti tra fazioni che non si vedono rappresentate o fette di popolazione che non si sentono sicure. Tra alti e bassi, momenti di pace mai sperimentati prima e timori di un ritorno al conflitto civile, si arriva al 2022 in uno scenario, però, che fa gridare all’allarme. Amnesty International, sulla base di notizie di scontri continui, non solo nell’Equatoria, proprio sul finire del 2021 denuncia che il «Sud Sudan potrebbe ripiombare nella guerra». Nei primi mesi di quest’anno, si moltiplicano gli scontri e la preoccupazione aumenta. A placarla, anche questa volta, arriva un gesto papale: il 3 marzo la Santa Sede annuncia che Francesco sarà in Sud Sudan (e Congo) tra il 2 e il 7 luglio prossimi. Le fazioni in lotta, nella fattispecie i loro leader le cui scarpe impolverate dall’odio hanno conosciuto il bacio del papa, sono ancora una volta spiazzati. Il 3 aprile annunciano un nuovo, importante accordo per l’unificazione del comando delle forze di sicurezza, un passo decisivo, anche se non definitivo, per mettere almeno parzialmente al sicuro l’esile processo di pace. Secondo le disposizioni siglate dalle principali compagini politiche, le posizioni di leadership nell’esercito, le forze di sicurezza nazionale e la polizia spetteranno alla fazione del presidente al 60% e il restante 40% sarà da spartire tra la fazione del vice e altri gruppi armati. Un elemento importante dell’accordo è l’integrazione nell’esercito regolare delle milizie ribelli. «È bastato l’annuncio del viaggio – esultano esponenti del clero sudsudanese ‒ per suscitare una riflessione nei nostri leader». «Non hanno potuto fare a meno di pensare: ‘Tra qualche mese saremo di nuovo faccia a faccia con il Papa, e cosa gli diremo? Che risposte daremo alle sue domande dirette sulla pace?», aggiunge padre Morris Ibiko, direttore del Campus dell’Università Cattolica del Sud Sudan.

Passati cinque giorni dall’ultimo accordo, sono scoppiati incidenti gravi nel Nord, in particolare nello Stato dello Unity. L’entusiasmo viene nuovamente e rapidamente messo alla prova. Ma seppure tra mille difficoltà e scontri, tra richieste inesigibili e posizioni apparentemente inconciliabili, il processo, probabilmente anche grazie alla benedizione politica, oltre che spirituale, del papa, andrà avanti.

Immagine: Un uomo tiene una bandiera del Sud Sudan durante le celebrazioni nell’anniversario dell’indipendenza del Paese, Juba, Sud Sudan (9 luglio 2016). Crediti: Richard Juilliart / Shutterstock.com

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

Argomenti

#pace#papa Francesco#indipendenza#guerra civile#Sud Sudan