Nel corso dell’estate l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale si è focalizzata, per quanto concerne l’Africa, sui colpi di Stato in Niger e Gabon. Il mondo assiste con apprensione alle future mosse da parte dei principali attorni regionali, dalla Francia all’ECOWAS (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale) nonché al posizionamento che le milizie del Gruppo Wagner presenti nella regione assumeranno dopo la morte del loro leader Evgenij Prigožin. Contestualmente al crescere dell’attenzione sull’area del Golfo di Guinea e nonostante le notizie che arrivano da Khartoum siano sempre più allarmanti, l’evoluzione della situazione in Sudan sta passando progressivamente in secondo piano.

I due candidati alla guida del Paese, Abdel Fattah Al-Burhan, a capo del governo militare attualmente in carica e delle forze regolari dell’esercito da un lato, e Mohamed Hamdan Dagalo (meglio noto come Hemedti), ex braccio destro di Al-Burhan e attualmente a capo delle milizie paramilitari Forze di supporto rapido dall’altro, sembrano essersi attestati su posizioni attualmente non conciliabili. I combattimenti, pertanto, proseguono senza sosta, soprattutto nella capitale Khartoum e nella regione del Darfur.

Sul Darfur, in particolare, l’ONU ha espresso profonda preoccupazione per il rischio di un ritorno a pratiche di genocidio ad opera soprattutto delle milizie di Hemedti. Le Forze di supporto rapido, infatti, sono strettamente collegate ai Janjaweed, gruppo che nel corso dei decenni scorsi si è macchiato di violenze sistematiche ai danni della popolazione locale di etnia non araba. Al contempo, entrambe le fazioni sono già oggi accusate di diversi crimini di guerra nonché di arruolare bambini-soldato tra le proprie fila. La situazione nel resto del Paese, difatti, è già ampiamente problematica. Gli sfollati interni hanno superato la quota di 5 milioni e sono migliaia le morti accertate (il computo totale, con ogni probabilità, è tuttavia ben più alto delle 4.000 vittime attualmente stimate). Più di 1 milione di persone ha già lasciato il Paese, affollando i campi profughi situati negli Stati confinanti, soprattutto Ciad ed Egitto, già in condizioni precarie per quanto concerne le necessità più basilari. Con il comparto agricolo sudanese attualmente paralizzato dal conflitto, si teme sempre di più l’incombere di una grave crisi alimentare che, inesorabilmente, farebbe crescere in misura esponenziale il numero di morti.

Nella capitale Khartoum, teatro ormai da mesi di combattimenti serrati casa per casa, sono stati segnalati diversi casi di cadaveri seppelliti al momento sul posto nel tentativo di scongiurare il rischio di epidemie. Gli approvvigionamenti di cibo, acqua, medicinali e carburante sono seriamente compromessi. L’unica zona in Sudan che al momento può considerarsi stabile è il litorale sul Mar Rosso, con la città di Port Sudan saldamente in mano alle forze governative e che da poco ha ripreso ad avere collegamenti aerei regolari da e verso l’Egitto. La ripresa del servizio aereo è il frutto di una recente visita di Al-Burhan al vicino settentrionale e al suo omonimo al-Sisi. Dall’incontro si è ulteriormente rafforzato il sostegno da parte del Cairo alla causa di Al-Burhan. Tuttavia, è al momento fuori discussione un possibile intervento da parte dell’esercito egiziano a sostegno del governo sudanese, eventualità senza dubbio desiderata da Al-Burhan. Nonostante il sopra citato appoggio politico da parte di al-Sisi, la situazione del Sudan rappresenta un grosso problema per l’Egitto, il quale confida di potersi accreditare quale intermediario privilegiato tra i due signori della guerra con l’obiettivo di porre fine al conflitto nel più breve tempo possibile o, se non altro, congelarlo e impedire così un’escalation le cui ricadute per gli egiziani sarebbero imprevedibili.

Al-Burhan, nel corso di queste settimane, sta lavorando molto per tessere relazioni di fiducia attraverso incontri bilaterali con lo scopo di mettere pressione sul suo rivale Hemedti, il quale, sebbene sia in grado di condurre a lungo il conflitto grazie a una solida posizione economica dovuta dai ricchi giacimenti minerali controllati dalle sue milizie (in particolar modo le miniere d’oro situate nel Darfur), si ritrova al momento senza sponsor stranieri, se si eccettuano gli Emirati Arabi Uniti, i quali su Hemedti, e soprattutto sulle risorse estrattive da lui controllate, hanno investito molto nel corso degli ultimi anni. Gli Emirati, pertanto, auspicherebbero una soluzione del conflitto che non conduca a una vittoria totale da parte di Al-Burhan. Diversi osservatori internazionali, a tal riguardo, accusano Abu Dhabi di rifornire in maniera nemmeno troppo occulta Hemedti di armamenti.

Non a caso Al-Burhan, dopo esser stato nel Sud Sudan nel tentativo di garantirsene il sostegno, ha deciso di visitare il Qatar, rivale storico degli Emirati Arabi Uniti. Doha fino a questo momento è stata un attore marginale rispetto ai propri vicini arabi del Golfo nei confronti del Sudan. La visita del leader delle forze regolari sudanesi, d’altra parte, potrebbe rappresentare per il Qatar la possibilità di entrare in una proxy war decisamente peculiare. Il Qatar, infatti, si ritroverebbe a fianco dell’Arabia Saudita, Paese con cui ha sempre avuto una conflittualità più intensa di quella verso gli Emirati Arabi Uniti. Le vicende in Sudan stanno evidenziando, oltretutto, la crescente divergenza di interessi tra Riyad e Abu Dhabi a livello internazionale. Se per decenni questi due Paesi si sono mossi con una certa sintonia nello scacchiere globale, negli ultimi anni in Yemen (altra proxy war che ha visto, ai suoi albori, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita intervenire assieme in funzione anti-iraniana) abbiamo assistito allo sviluppo di una strategia emiratina diversa e, talvolta, persino conflittuale con quella saudita.

Da registrare, intanto, lo scarso interesse alle vicende del Sudan da parte dei principali attori internazionali, dall’Unione Europea agli Stati Uniti, senza dimenticare l’ex potenza colonizzatrice: il Regno Unito. La Cina, nel frattempo, che è già creditrice verso il Sudan di diversi miliardi di dollari sotto forma d’investimenti elargiti nel Paese secondo una formula rodata negli anni, non ha particolare interesse a spendersi a favore di uno dei due schieramenti; indipendentemente da chi uscirà vincitore dal conflitto, l’interesse cinese è quello che tali debiti vengano, prima o poi, saldati. Il proseguimento della guerra civile sudanese, oltretutto, potrebbe rappresentare potenzialmente per Pechino un’ulteriore occasione d’affari, in particolare per il settore, in forte crescita, della sicurezza privata.

Nonostante le sue considerevoli ricchezze in termini di risorse, l’endemica instabilità politica che affligge il Sudan sin dall’indipendenza, nel 1956, sembra avere con il tempo scoraggiato l’interesse da parte dei principali attori globali. Il risultato è, in maniera simile a quanto avvenuto per il conflitto in Yemen, un Sudan derubricato sempre più ad affare marginale interno al mondo arabo, sul cui suolo le potenze regionali si confrontano senza, tuttavia, compromettersi troppo; è difficile, per esempio, pensare che la differenza di vedute sostanziale tra Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti in Sudan possa mettere a rischio la storica collaborazione che i due Paesi hanno sviluppato e tutt’ora mantengono a livello internazionale.

A differenza dello Yemen, l’attuale conflitto in Sudan non presenta importanti fattori di divisione di natura etica o religiosa. Lo scontro tra Al-Burhan ed Hemedti, per anni fianco a fianco nella guida dell’esercito sudanese dominato dalla componente etnica araba della popolazione ‒ fattore che ha portato alla decennale guerra civile verso il Sud animista e cristiano oggi indipendente così come alle persecuzioni sommarie verso le popolazioni non arabe nel Darfur ‒ è fortemente legato a ragioni di potere squisitamente personale. Ciò è stato possibile grazie alla struttura stessa dell’economia e della società sudanese, che ha visto, fin dai suoi albori quale Paese indipendente, una forte compenetrazione dei militari negli equilibri economici del Paese, soprattutto nei suoi asset più profittevoli, dalle risorse minerarie ed energetiche passando al comparto agricolo. Tale situazione ha fatto sì che, nel corso della storia del Sudan indipendente, l’esercito fosse in grado di muoversi quale padrone assoluto. Il conflitto attuale ne rappresenta la triste quanto naturale evoluzione; un’evoluzione in cui non è più l’esercito nel suo complesso ma il singolo comandante ad avere le capacità economiche ed organizzative per ritagliarsi la propria fetta di potere assoluto. Date tali condizioni, è assolutamente plausibile che, in futuro, possano emergere altri “Hemedti”.

Data la natura “priva di morale” dell’instabilità politica sudanese attuale, le potenze straniere attualmente impegnate nel Paese possono a loro volta sentirsi maggiormente incoraggiate a perseguire un’agenda nei riguardi del Sudan volta al più sfrenato cinismo. Considerato che, allo stato attuale, nessuna tra le due forze in campo sembra aver la possibilità di prevalere nettamente sull’altra dal punto di vista militare, il Sudan rischia di diventare, nel tempo, uno Stato sostanzialmente fallito e, soprattutto, un laboratorio di esercizio del potere e della violenza a uso e consumo dei più disparati interessi locali e internazionali. Uno scenario di costante instabilità che sarebbe a dir poco catastrofico per la popolazione locale oltre che rischioso, data la sua imprevedibilità, per la comunità internazionale nel suo complesso.

Per approfondire

Bassima Kodmani, The Relentless Power of the Sudanese Military, Istituto Montaigne, novembre 2021.

Un’analisi sulla preponderanza del comparto militare nella struttura economica e sociale sudanese, uno dei fattori alla base dello scoppio della guerra civile in corso.

‏Immagine: Un enorme incendio in uno degli antichi mercati del Sudan il mercato di Amdurman, probabilmente a causa della guerra. Crediti: Abd_Almohimen_Sayed / Shutterstock.com

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