Sul piano militare il quadro della vicenda siriana appare ormai delineato, con le forze lealiste del presidente Assad – sostenute dalla Russia –, vincitrici sul sedicente Stato islamico, mentre i “ribelli” siriani continuano a perdere posizioni. Nel frattempo, la Turchia ha colto l’occasione per stroncare nuovamente le speranze autonomiste curde, addirittura sconfinando ad Afrin e cercando di porre fine all’indipendenza (autoproclamata) del Rojava.

Già da questo velocissimo e per forza di cose superficiale riassunto si notano due assenze importanti: l’America e l’Europa. Washington ha cercato di rientrare nella partita col raid aereo di qualche giorno fa, che però – nonostante i proclami del presidente Trump – s’è rivelato più un’azione dimostrativa che una vera prova di forza. I missili del Pentagono hanno colpito solo poche installazioni militari senza grande importanza strategica e la totale assenza di vittime fa pensare che, in qualche modo, i servizi militari russi e siriani fossero stati avvertiti con un buon anticipo.

Per quanto riguarda il vecchio continente, come spesso accade, l’azione è stata non coordinata e non condivisa: Francia e Regno Unito hanno deciso in maniera unilaterale di schierarsi con gli americani partecipando all’attacco contro le basi siriane, mentre Germania, Italia e gli altri Paesi dell’Unione, pur ribadendo la loro fedeltà allo schieramento occidentale, non hanno voluto prendere parte all’azione militare.

La Commissione europea, il Parlamento e l’alto rappresentante, invece, non sono pervenuti, se non per qualche generico appello alla non violenza e al dialogo. Le istituzioni bruxellesi pagano la mancanza di veri strumenti di cooperazione militare: l’iniziativa di coordinamento inaugurata appena qualche mese fa da Federica Mogherini non è ancora andata oltre la dichiarazione d’intenti, mentre ogni tentativo, per quanto blando, di mettere in comune i dati di intelligence e sicurezza strategica si sono scontrati con i muri innalzati dalle varie agenzie nazionali.

Non a caso il presidente Macron, nel suo discorso davanti al Parlamento europeo, ha tenuto a ribadire che, con la Brexit, Parigi rimane l’unico membro UE con un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, nonché il solo dotato di una force de frappe nucleare. Il Consiglio europeo, infine, è spaccato sulla faglia est/ovest, con i Paesi di Visegrád animati da un mai sopito sentimento russofobo, mentre l’Occidente si ritrova stretto tra il vincolo di fedeltà all’alleato atlantico e il tentativo di non far degenerare del tutto i rapporti con Mosca.

Sulla Siria, come sull’Iraq, l’Afghanistan, la Libia, l’Ucraina e, in generale, tutte le grandi questioni geopolitiche degli ultimi trent’anni, l’Unione Europea pare afona; schiacciata dagli interessi nazionali e dal calcolo politico delle varie cancellerie. Macron ha visto nel raid americano la possibilità di accreditarsi – anche militarmente – come il nuovo “uomo forte” d’Europa seguendo una prassi inaugurata dal suo predecessore Nicolas Sarkozy. Theresa May, con la Brexit ormai prossima, non ha mai fatto mistero di voler rinsaldare l’antica special relation atlantica e, dunque, mira a trasformare, con un approccio quasi da guerra fredda, il Regno Unito nel bastione europeo della potenza americana.

Angela Merkel, dal canto suo, preferisce evitare altre tensioni con la Russia e rimanere silente, per poi magari proporsi come mediatore fra le varie forze in campo; l’Italia, infine, senza governo e con una potenziale maggioranza parlamentare dalle spinte contrastanti in politica estera, si limiterà – almeno per ora – a concedere l’uso delle sue basi militari in linea con i trattati internazionali.

Questa mancanza di coordinamento comune ovviamente indebolisce la proiezione geostrategica di tutti gli attori in campo, con Francia e Regno Unito disposti a inseguire le iniziative di Washington, mentre la Germania e gli altri stanno alla finestra in attesa di capire da che parte tirerà il vento. Si tratta di una situazione quasi surreale perché la Siria si affaccia sul Mediterraneo, è nel nostro “giardino di casa”, e rappresenta un crocevia di interessi demografici, economici e politici di straordinario rilievo. L’Europa si trova così ad essere spettatrice di un processo che la riguarda, ma su cui rischia di avere scarsa influenza, e in balia delle scelte di attori imprevedibili e mutevoli, che recitano seguendo un copione che può riservare più colpi di scena. Non necessariamente positivi.

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