«È nel deserto del Negev che la creatività e il vigore pionieristico di Israele saranno messi alla prova». Con queste parole il primo premier e padre dello Stato ebraico, David Ben Gurion, spiegava nel 1970 la scelta del kibbutz di Sde Boker come sede del suo ritiro dalla vita politica, dopo aver proclamato la nascita stessa di Israele nel 1948 e averne guidato il governo per quasi un ventennio. Nella stessa località, simbolo del connubio tra sionismo e collettivismo di matrice socialista situata nel cuore del deserto israeliano, ha avuto luogo il 28 marzo un vertice senza precedenti tra il segretario di Stato americano, Antony Blinken, e rappresentanti dei Paesi coinvolti a vario titolo nei cosiddetti Accordi di Abramo del 2020: Israele, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Marocco.

Al summit hanno partecipato, oltre al già citato Blinken, il ministro degli Esteri israeliano e padrone di casa, Yair Lapid, l’omologo emiratino Abdullah bin Zayed al-Nahyan, il capo della diplomazia del Bahrain, Abdullatif bin Rashid al-Zayani, il ministro degli Esteri del Marocco, Nasser Bourita e l’egiziano, Sameh Shoukry. La scelta del luogo, come spesso accade nelle arene politiche internazionali, porta con sé una carica simbolica non trascurabile. Accettare Sde Boker come luogo di confronto significa accogliere una prospettiva impensabile fino a qualche anno fa, ossia l’accettazione da parte degli interlocutori arabi dell’esistenza stessa di Israele e del suo radicamento sul territorio.

Dal punto di vista politico, il risultato principale del summit è stato la sua trasformazione da vertice diplomatico straordinario a forum permanente. Si tratterà, con tutta probabilità, di un formato multilaterale destinato a creare una nuova architettura per la sicurezza regionale, basata sostanzialmente su due pilastri: il contenimento dell’Iran e la fine delle frizioni tra Israele e i vicini arabi. Il tutto si inserisce, poi, in un contesto internazionale profondamente cambiato negli ultimi vent’anni. La “guerra al terrore” promossa dagli Stati Uniti dopo gli attentati terroristici del 2001 aveva rimesso il mondo arabo al centro del globo e degli interessi geopolitici. Oggi, al contrario, la grande competizione globale tra USA e Cina sposta inevitabilmente l’Oceano Pacifico al centro dei planisferi. Si tratta di un bipolarismo sfumato, in cui però il mondo arabo si ritrova suo malgrado in periferia. Ma anche di un bipolarismo angusto, in cui la Russia – come evidente dall’invasione ucraina – non ha intenzione di giocare unicamente la parte del gregario. In altri termini, gli Stati Uniti cercano di implementare un nuovo assetto mediorientale – cui potrebbe aggiungersi anche un accordo sul nucleare con l’Iran – per dedicarsi con maggior attenzione al teatro Indo-Pacifico.

Gli interventi dei vari leader, durante la conferenza stampa congiunta al termine del vertice, sono stati tutti caratterizzati da toni ottimistici e positivi. Il marocchino Bourita ha parlato apertamente di «spirito del Negev», inteso come un nuovo tipo di mentalità in cui inquadrare i rapporti con Israele. «Siamo qui oggi perché crediamo veramente e profondamente nella pace, una pace in grado di creare valore», ha affermato il capo della diplomazia del Marocco, Paese che da anni fa vanto della sua tolleranza verso le varie espressioni religiose, compresa quella ebraica. «Lavorare insieme è il modo per superare la narrativa dell’odio e del terrorismo. Prevarremo, non c’è dubbio», ha affermato per parte sua l’emiratino al-Nahyan.

Il vertice del Negev sembra dunque la naturale prosecuzione della politica mediorientale inaugurata durante l’amministrazione dell’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. L’idea fondamentale di questa dottrina è quella di favorire la normalizzazione dei rapporti tra Israele e i vicini arabi, di fatto però scavalcando gli altri protagonisti delle dinamiche locali, cioè i palestinesi. Lo spiega in tono quasi perentorio un editoriale della giornalista israeliana Noa Landau sul quotidiano Haaretz, intitolato non a caso “La normalizzazione non farà sparire i palestinesi”.

Una conferma in tal senso sembra arrivare dall’ondata di attentati che nel giro di una settimana – con attacchi in diverse zone di Israele – hanno portato alla morte di undici persone. Un livello di violenza simile non si vedeva dal 2006. Nella serata di martedì 29 marzo un uomo in motocicletta ha aperto il fuoco sulla folla a Bnei Brak, sobborgo alle porte di Tel Aviv abitato in gran parte da Ebrei haredim (quelli che spesso ed erroneamente vengono definiti “ultraortodossi”). Nell’attentato, durante il quale ha perso la vita lo stesso assalitore, sono morte cinque persone: un ufficiale di polizia, due residenti locali e persino due cittadini ebrei di nazionalità ucraina. Autore della strage, stando alle prime ricostruzioni, un ventiseienne palestinese proveniente dalla Cisgiordania di nome Diaa Hamarsheh. Era stato condannato a un anno e mezzo di prigione già nel 2013.

Il premier israeliano Naftali Bennett ha promesso «decisione e pugno di ferro» per rispondere a questa ondata di «terrorismo arabo». La terminologia scelta non è assolutamente casuale. Parlare di “arabi” anziché di “palestinesi” vuol dire negare in nuce la possibilità di una definizione nazionale, anziché semplicemente etnica e linguistica. Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmud Abbas (Abu Mazen), ha espresso una condanna insolitamente forte rispetto all’attacco terroristico, sottolineando che «l’uccisione di civili palestinesi e israeliani non fa che peggiorare la situazione». Al contrario, il movimento Hamas e il gruppo denominato Jihad islamico hanno applaudito all’assalto, secondo quanto riferito dai media locali. Nel frattempo, decine di persone si sono riunite in un corteo celebrativo a Ya’abad, località nei pressi di Jenin (Cisgiordania), da cui proveniva Hamarsheh.

In altre parole, mentre il treno della normalizzazione prosegue spedito anche tra le sabbie del Negev, i nodi principali di quella che per mezzo secolo è stata “la questione” per eccellenza sono ancora ben lontani dall’essere sciolti. Non si può escludere che i palestinesi, ormai sfiduciati da una leadership che non li rappresenta più e che non ha neanche il coraggio di mandarli alle urne, tornino a cercare nelle armi la via per far sentire la propria voce.

Immagine: Yair Lapid (6 marzo 2021). Crediti: Gil Cohen Magen / Shutterstock.com

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