9 settembre 2020

Trump e i generali: un conflitto istituzionale

La settimana scorsa l’evento politico/comunicativo più importante della campagna elettorale ha visto Donald Trump sulla difensiva. Stiamo parlando dell’articolo di The Atlantic del 3 settembre che descrive, attraverso l’indagine del reporter Jeffrey Goldberg, i commenti derisori del presidente nei confronti dei veterani di guerra americani. La vicenda è ormai nota: Trump, nel giugno del 2018, decide di eliminare dai programmi della giornata la visita al cimitero di guerra americano di Aisne-Marne, vicino Parigi. È un cimitero della prima guerra mondiale, nato dopo la battaglia del bosco di Belleau: una battaglia onorata in particolare dai Marines, che lì si distinsero per capacità e tenacia. Fa parte, insomma, dei loro miti fondativi. Le parole attribuite a Trump sono ingiuriose: avrebbe descritto i militari come “losers” e “suckers” (Goldberg cita almeno quattro fonti). L’articolo descrive anche altri momenti critici del rapporto fra i militari e Trump, sempre attraverso fonti dirette e anonime.

 

Dopo alcuni giorni di polemiche molto dure, la stampa sta vivendo una coda di analisi e commenti su quell’episodio. Le fonti di Goldberg vengono messe alla prova dai colleghi, la macchina comunicativa della presidenza risponde, altri si interrogano su di un tema che è caro anche a noi, e sul quale abbiamo più domande che risposte: che cosa sta succedendo davvero nella relazione fra i militari e il presidente Trump? Al principio del suo mandato, la presenza di militari nella amministrazione era una delle caratteristiche della presidenza Trump; caratteristica che è andata perdendosi. Quella presenza rappresentava una sorta di garanzia non solo verso il mondo militare, ma anche verso quello che la stampa definisce il Deep State? Era una garanzia di continuità nell’azione amministrativa per un presidente atipico e imprevedibile? Da un paio di mesi gli attacchi al presidente da parte di ex militari si sono intensificati, la stampa specializzata che copre le questioni militari e conosce il Pentagono ha sempre più storie da raccontare; Mark Milley ‒ il militare più alto in grado nella catena di comando americana, che fa da raccordo fra presidente e capi di Stato Maggiore ‒ è arrivato a dover esprimere posizioni pubbliche, in almeno due occasioni, per chiarire il ruolo dei militari nel sistema politico democratico americano. Un fatto davvero molto inusuale. Qui di seguito mettiamo insieme qualche pezzo del puzzle.

 

Nell’aprile di quest’anno sempre The Atlantic ‒ una rivista antica e autorevole, che oggi gioca in aperta contrapposizione con Trump (nel 2016 quello per Hillary Clinton è stato il terzo endorsement della rivista per un’elezione presidenziale in 167 anni di storia) ‒ ha pubblicato un lunghissimo articolo dal titolo Il Presidente sta vincendo la sua guerra contro le istituzioni a firma di George Packer, un veterano del giornalismo americano. L’inchiesta di Packer riguarda i conflitti fra la burocrazia americana e Trump; i militari restano fuori dalla story di The Atlantic (si dice che, soprattutto al principio, avessero apprezzato la mano pesante e veloce di Trump: alcune azioni militari, con Obama, avrebbero richiesto tante riunioni, e forse non sarebbero mai state autorizzate). Ma sono alcuni ex generali di rango, oggi, a prendere la parola contro Trump. The Atlantic è ancora un veicolo: Jim Mattis ‒ ex segretario alla Difesa dell’amministrazione Trump ed ex generale dei Marines ‒ scrive da quelle colonne un attacco durissimo a Trump, definendolo un pericolo per la Costituzione.

A Mattis si aggiunge l’ex ammiraglio Mike Mullen ‒ ex capo di Stato Maggiore ‒ che critica la politicizzazione delle forze armate (il riferimento è all’uso dei militari per disperdere una manifestazione in memoria di George Floyd, tenutasi il 3 giugno di fronte alla Casa Bianca), e con lui si allinea un altro generale in pensione, John Kelly. Kelly è una figura chiave di questa vicenda politica e giornalistica: da membro dell’amministrazione Trump ‒ è stato prima segretario della Homeland Security e poi capo dello staff della Casa Bianca, un ruolo chiave ‒ era fisicamente presente quando Trump avrebbe insultato le vittime e i reduci di guerra in Francia (la sua biografia si intreccia con la vicenda: il figlio ventinovenne è morto in un’operazione militare nel 2010). È quello che potrebbe dire di più su Trump e la sua personalità (e la sua percezione del mondo militare). Kelly però parla poco: ma non smentisce la ricostruzione di Goldberg, mentre un suo assistente è accusato di essere una delle fonti del reporter dell’Atlantic.

 

Con i generali, quindi, vi è stato un conflitto “caratteriale” (e sono molte le testimonianze non smentite o confermate in questo senso), un conflitto sul ruolo dei militari nel rapporto con civili e istituzioni, un conflitto anche strategico: sui rapporti con la Russia, con l’Iran, con gli alleati della NATO. Insomma, non un semplice scontro di personalità (alcune di queste scelte, va detto, mitigate dal sentire comune su aumento delle risorse per il Pentagono e un atteggiamento più muscolare verso la Cina). Il turning point? Proprio il giorno al quale si accennava prima, nel quale Trump ha attraversato Lafayette Park, davanti alla Casa Bianca, per raggiungere una chiesa danneggiata durante le proteste (facendosi scudo anche con uomini dell’esercito). Alcuni ex militari hanno criticato il segretario alla Difesa Mark Esper e Mark Milley per aver preso parte alla passeggiata, a seguito della quale i due si sono trovati a dichiarare ‒ in contraddizione con il presidente ‒ di non appoggiare la richiesta dell’uso dei militari per funzioni di ordine pubblico interno (Milley l’11 giugno arriva ad affermare, inoltre, di essersi pentito di aver partecipato alla camminata di Trump a Lafayette Park).

 

Per certi versi, eclatante anche la lettera di Milley, datata 2 giugno, nella quale ricorda a tutte le forze armate che «ogni membro dell’esercito americano giura di sostenere e difendere la Costituzione e i valori in essa incorporati. Questo documento si fonda su principi essenziali: tutti gli uomini e le donne nascono liberi e uguali e devono essere trattati con rispetto e dignità. Dà anche agli americani il diritto alla libertà di parola e di riunione pacifica». Lo stesso generale Milley ha garantito, in un’audizione congressuale tenutasi a fine agosto, che «la Costituzione e le leggi degli Stati Uniti e dei singoli Stati stabiliscono le procedure per lo svolgimento delle elezioni e per la risoluzione delle controversie sull’esito delle elezioni. Non vedo l’esercito statunitense come parte di questo processo (…). In caso di disputa su alcuni aspetti delle elezioni, i tribunali statunitensi e il Congresso degli Stati Uniti sono tenuti a risolvere qualsiasi controversia, non l'esercito statunitense».

 

Il puzzle non è completo, ma ci pare sufficiente a far pensare che esista una crisi istituzionale “fredda” fra apparato militare e presidente, che sempre più spesso, si fa “calda”. Quali conseguenze avrà? 

 

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Immagine: Soldato statunitense che saluta alla cerimonia di sepoltura militare nel cimitero nazionale di Arlington a Washington DC, Stati Uniti (29 marzo 2020). Crediti: S-F / Shutterstock.com

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