Una gaffe dello staff di Donald Trump è divenuto un fatto di cronaca. Il New York Times ha riportato come la piattaforma elettorale per le elezioni del 2020 - quella che dovrebbe animare la Convention repubblicana di questa estate, che si terrà a Jacksonville - sia stata adottata riproducendo quella del 2016. Per certi versi può trattarsi di una scelta politica - qualcuno nell’ambiente del Presidente lo ha anche rivendicato - per altri è il chiaro frutto di un’incuria: in 40 casi vengono portate critiche “all’attuale presidente” (era stato lasciato il riferimento a Barack Obama, di fatto). Questo episodio ci accompagna al cuore della questione: Donald Trump sta riproducendo molto, moltissimo, del bagaglio di strategie, azioni e parole d’ordine utilizzate nel 2016. In realtà non doveva essere così: la strategia elettorale del 2020 doveva poggiare sui buoni risultati raggiunti in campo economico e mostrare che l’America era di nuovo “Great Again”; altri quattro anni di Presidenza Trump avrebbero portato il Paese a prosperare come non mai nel consesso delle nazioni. In uno dei suoi primi spot elettorali - lo slogan era “Stronger” - il video mostrava l’entusiasmo del popolo americano verso Donald Trump, che garantiva come il meglio dovesse ancora arrivare, “The Best is Yet to Come” (nel link trovate una versione declinata per il pubblico del Colorado, con delle bellissime immagini di cowboy che corrono a cavallo immersi nella neve: la fattura del prodotto è di altissima qualità).

Dalle recriminazioni verso i democratici e la solita Washington del 2016, nel 2020 ci si sarebbe dovuti muovere verso la celebrazione dei successi della Presidenza Trump. Il quale, al contrario, si è trovato nel mezzo di tre crisi senza precedenti: la peggiore epidemia della storia americana dai tempi della Spagnola, un secolo fa; la peggiore crisi occupazionale dai tempi della Grande Depressione; la più grande protesta di nazionale sul tema della discriminazione razziale dal 1968. La “narrative” positiva, che doveva differenziarsi da quella del 2016, si è persa nel mare della cruda realtà. Si è presentato quindi un problema di messaggio, che è stato affrontato all’interno del suo staff in questi ultimi giorni: le indiscrezioni giornalistiche hanno riportato le preoccupazioni dei consiglieri di Trump, che vorrebbero che il Presidente trovasse una strada per ricostruire i ponti dentro un’America in conflitto con se stessa, mostrando una leadership capace di curare e unire il Paese. La risposta a questa preoccupazione è rappresentata dalle parole pronunciate l’altro giorno dallo stesso Presidente, che ha promesso di firmare un Executive Order che dovrà assicurare standard di massima professionalità ai corpi di polizia di tutto il Paese (la polizia è nell’occhio del ciclone da due settimane): Trump ha parlato di una polizia che deve sapere usare “forza e compassione” allo stesso tempo. La dichiarazione era punteggiata da altre timide concessioni alle critiche di questi giorni, pur in assenza di qualsiasi autocritica (non è lo stile del Presidente). Basterà a calmare la piazza? Difficile.

Perché queste timide aperture, o la messa in discussione - dietro le quinte - della strategia generale? Perché, in assenza della calma che avrebbe permesso al Presidente di produrre un messaggio positivo, Trump è tornato a essere il Trump del 2016, lo stesso della piattaforma di allora: quello che ingaggia battaglie senza quartiere con tutti i nemici che gli si parano di fronte. Facciamo un conto: quanti sono diventati i fronti di Trump? Ne abbiamo enumerati sette.

1. C’è il fronte dei manifestanti: la polemica non si placa, Trump è il Presidente che ha fatto caricare i manifestanti intorno alla Casa Bianca per fare una foto, è quello che ha chiamato i governatori a “dominare” la piazza;

2. c’è la polemica aperta con Twitter sul “fact checking” delle sue affermazioni (c’era stata, poco tempo fa, la durissima polemica contro Twitter sulla segnalazione del social network che le affermazioni del Presidente dovevano essere sottoposte a ulteriore verifica);

3. c’è il solito scontro con quelli che Trump definisce i “media mainstream”, che si arricchisce di nuove frizioni con un network tradizionalmente amico come Fox News (tanto che, sempre più spesso, Trump fa riferimenti positivi ad AONN, una piccola emittente di destra);

4. c’è il conflitto istituzionale con i governatori e i sindaci democratici (prima per l’emergenza Covid19, ora sulla gestione dell’ordine pubblico);

5. la polemica con gli alti generali in pensione, il Segretario alla Difesa, James Mattis (ex Segretario alla Difesa), cui si è aggiunto Mark Milley, il Capo di Stato Maggiore di tutte le Forze Armate, che si è scusato per aver partecipato alla “marcia” della Casa Bianca verso la foto-opportunity di fronte alla chiesa episcopale di St. John;

6. ci sono i repubblicani che si sfilano dall’abbraccio al Presidente: si tratta dei soliti noti come Mitt Romney e George W. Bush, ma si registra freddezza anche fra alcuni membri del Congresso, come la senatrice Lisa Murkowski dell’Alaska e Lindsey Graham, un politico di lungo corso che ha apprezzato il ripensamento di Milley pubblicamente;

7. ci sono, ovviamente, i democratici, con i quali lo scambio è quasi da guerra civile: si accusano a vicenda di voler truccare le elezioni, tanto da far affermare a Joe Biden che se Trump non riconoscesse un risultato elettorale a suo sfavore, “saranno i militari a scortarlo fuori dalla Casa Bianca”.

La domanda che ci poniamo è semplice: una strategia sempre all’attacco, sempre a caccia di nemici istituzionali può funzionare bene quando si è all��opposizione, ma quanto può servire quando il Paese è attraversato da più di una crisi, mentre si rappresentano le istituzioni? E soprattutto, qual è il numero limite di nemici che si possono collezionare prima che la strategia diventi controproducente?

Immagine: President Trump Visits St. John's Episcopal Church. Crediti: Di dominio pubblico, attraverso www.flickr.com

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

Argomenti

#Stati Uniti#razzismo#Trump