La questione ambientale costituisce innegabilmente uno dei maggiori capitoli dell’agenda politica della Repubblica Popolare Cinese, per via delle sue vaste ripercussioni sia a livello domestico sia a livello internazionale. Dal 2007 la Cina ha superato gli Stati Uniti quale principale emettitore di CO2, attirandosi una crescente ostilità da parte della comunità internazionale, con grave detrimento della propria immagine e del proprio soft power. Ma Pechino ha sottoscritto tutti i maggiori accordi internazionali sull’ambiente e, dopo il recente ritiro statunitense dall’accordo di Parigi, ha assunto di buon grado il ruolo di capofila nella lotta ai cambiamenti climatici, volendo presentarsi sulla scena internazionale come un attore affidabile e responsabile anche in materia ambientale. La leadership cinese vede, infatti, negli impegni assunti a Parigi e ribaditi a Bonn agli inizi di novembre, uno strumento per rendere più sostenibile il proprio modello economico e puntare su innovazione e ricerca.
In effetti, già a partire dal 2013 è iniziata una lenta ma costante riduzione della dipendenza dal carbone, laddove sono aumentati gli investimenti in energie rinnovabili, con l’obiettivo di aumentare del 20% la quota di energia prodotta da fonti rinnovabili entro il 2030, con particolare riferimento ai settori eolico e solare, aumentando al contempo anche i posti di lavoro. Basti pensare che il 40% dei lavoratori nel settore delle rinnovabili, a livello mondiale, è cinese.
La Cina si è attivata da tempo per l’introduzione di politiche nazionali per la salvaguardia ambientale, in considerazione della sua stretta correlazione con il fenomeno della corruzione e ancor più con la problematica legata alla salute dei cittadini e dunque con la stabilità sociale. L’emergere della questione ambientale va fatta risalire all’avvio della politica di “riforma e apertura” (gaige kaifang zhengce), a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, che ha sancito il passaggio da economia pianificata a economia di mercato e ha garantito al Paese una formidabile crescita economica che prosegue ancora oggi, sia pure con ritmi meno sostenuti. Si potrebbe dire che essa sia figlia del miracolo cinese.
È innegabile, infatti, che la rapida crescita economica, al di là dei suoi effetti benefici sulle condizioni di vita della popolazione in generale, abbia avuto delle forti ripercussioni sull’ecosistema del Paese, per via dell’intenso sfruttamento delle risorse naturali e della crescita delle produzioni industriali maggiormente inquinanti e a forte consumo energetico. L’accelerazione dei processi di industrializzazione e urbanizzazione, l’eccessiva dipendenza dal carbone quale fonte di energia fossile predominante, l’elevato livello di intensità energetica dell’industria manifatturiera, oltre all’applicazione poco rigorosa della normativa inerente la produzione ambientale ̶ prodotta fin dagli anni Settanta ̶ possono essere annoverati tra le ragioni principali del preoccupante livello di inquinamento che colpisce indistintamente aria, acqua e sottosuolo. Non a caso, esso rientra tra le cause principali dei cosiddetti “incidenti di massa” (qunti xing shijian) che scuotono il Paese fin dai primi anni Novanta e che grazie alla diffusione di internet sono diventati strumenti efficaci per esprimere la rabbia dei cittadini. Il motivo non è difficile da comprendere, visto e considerato che quella del degrado ambientale è una problematica che riguarda tutti, più o meno indistintamente.
Diversi studi scientifici rivelano che la qualità dell’aria tossica in Cina è responsabile di oltre un milione di morti ogni anno e di un terzo dei decessi nelle città principali, al pari del fumo. I livelli di concentrazione di polveri sottili (PM2,5) – causa principale di malattie respiratorie, cardiovascolari e di tumori ai polmoni – sono costantemente più elevati di almeno 5 volte rispetto ai limiti fissati dall’OMS, con casi critici che hanno visto superare il limite anche di 100 volte, come accaduto nel dicembre del 2016 a Shijiazhuang, capoluogo della provincia dello Hebei. La correlazione tra inquinamento e salute è stata denunciata per la prima volta nel 2009 da un giornalista di inchiesta di una televisione di Hong Kong, all’indomani dell’individuazione dei famigerati “villaggio del cancro” (aizheng cun), la cui esistenza è stata riconosciuta da Pechino nel 2013.
Ciò detto, il governo cinese, già da qualche anno, si è impegnato nell’adozione di politiche volte a integrare e bilanciare protezione ambientale, crescita economica e stabilità sociale. Il tema della sostenibilità della crescita è stato declinato nei Piani quinquennali sin dai primi anni Ottanta, partendo dall’introduzione di concetti quali “società armoniosa” (hexie shihui), “visione scientifica dello sviluppo” (kexue fazhan guan), “sviluppo dell’industria verde” (luse chanye fazhan), e dall’inserimento di obiettivi ambiziosi resi via via obbligatori – a partire dal VI (1981-1985) dove, per la prima volta, si faceva un richiamo esplicito alla necessità di rafforzare la protezione dell’ambiente, passando per il XII (2011-2015) che vedeva l’industria verde (luse chanye) tra i settori strategici emergenti, per arrivare all’ultimo, il XIII (2016-2020), definito “il più verde di tutti i piani” (zui luse de wu nian jihua). Di rilevanza ancora maggiore è il cambio di atteggiamento sotteso della leadership cinese, evidente nell’enfasi crescente posta nella tutela ambientale e nella conservazione delle risorse naturali, attraverso la promozione dell’uso di energie rinnovabili, e nella maggiore attenzione riposta sulla qualità piuttosto che sulla velocità della crescita economica.
A conferma di ciò vi è l’inserimento della questione ambientale e della crescita sostenibile fra i punti chiave della campagna del “sogno cinese” (Zhongguo meng) di Xi Jinping, che ne ha fatto uno strumento utile per valutare le performance dei quadri di governo locali, laddove fino a qualche tempo fa essi erano giudicati sulla base del tasso di crescita del PIL, e della nuova Legge per la protezione ambientale (Huanjing baohu fa), in vigore dal 1° gennaio 2015, che inasprisce le pene per i trasgressori e aumenta le responsabilità dei funzionari pubblici. Insomma, dopo svariati decenni di crescita incontrollata, la Cina sembra essere giunta a un inevitabile punto di svolta, contrassegnato dal passaggio dalla vecchia impostazione di “crescita a ogni costo” a un nuovo modello di sviluppo sostenibile attento all’ambiente e alla salute della popolazione, in linea con la visione radicata nel pensiero tradizionale cinese che considera l’uomo come parte integrante della natura.