Se il computo degli orrori della guerra contro l’Ucraina è ancora in divenire e riguarderà finanche la Corte penale internazionale, il bilancio degli errori del Cremlino è invece già in parte acquisito sul piano diplomatico che sempre opera all’ombra della guerra. Acquisito formalmente è intanto l’ingresso della Finlandia nella NATO quale 31° membro, un evento impensabile prima dell’invasione russa dell’Ucraina. Non è un fatto qualunque: aggiunge ben 1.300 km di confine tra l’Alleanza e la Russia, raddoppiando così quelli finora esistenti. Inoltre, esso porta a sette gli Stati alleati che circondano l’accesso russo sul Mare Baltico via San Pietroburgo e Kaliningrad. L’ottavo e ultimo Stato, cioè la Svezia, vuole anch’esso aderire all’Alleanza e non intende deflettere, malgrado l’opposizione turca e le recenti minacce dell’ambasciata russa a Stoccolma che perciò la ritiene – ipse dixit – un «bersaglio legittimo».
Unita a quella finlandese, l’adesione svedese alla NATO porterebbe dopo due secoli a un’eclatante trasformazione dei neutrali in nemici. Segnerebbe non solo questo mutamento politico, bensì l’estensione del territorio dell’Alleanza atlantica all’intera penisola scandinava in aggiunta alle isole danesi e all’intera terraferma dell’Europa centrale e orientale che già difende – Bielorussia esclusa. Questa disfatta autoprodotta della politica russa, esito inintenzionale di una condotta insipiente capace di scambiare la neutralità con l’avversione, aggiungendo così potenza alla potenza che si combatte, giunge insieme ad una trasformazione ancor peggiore per la diplomazia russa, quella degli amici in padroni.
Le missioni europee di questi giorni a Pechino, prima di Pedro Sánchez, poi di Ursula von der Leyen insieme a Emmanuel Macron, indicano ormai che un baricentro diplomatico della guerra d’Ucraina si trova ad oriente, ma che esso è ben lontano da Mosca. Indicano soprattutto che la Federazione Russa è considerata ormai subalterna alla Repubblica Popolare Cinese e combatte una guerra del cui esito necessario – cioè la pace – è paradossalmente ritenuta al massimo comprimaria. Così come Sánchez ha già difeso a Pechino il piano di pace avanzato dal presidente ucraino Zelenskij, richiamando al contempo il ruolo cinese nel dialogo internazionale e apprezzando il documento di «posizionamento della Cina sulla soluzione politica della crisi in Ucraina» in vista di una «concertazione» che fa leva anche sugli interessi economici e commerciali cinesi, così Ursula von der Leyen ha citato il 30 marzo scorso, prima dell’imminente missione a Pechino, l’atteggiamento cinese verso «l’invasione atroce e illegale dell’Ucraina» quale «fattore determinante» nel prosieguo delle relazioni tra Unione Europea e Cina. Da parte europea si trasla sulla Cina la funzione dirigente nelle relazioni internazionali tipica delle grandi potenze, delegittimando quella della Russia e cercando di separarne, per quanto possibile, la politica. Si affida perciò alla Cina, al suo bisogno di prestigio e di cooperazione, la responsabilità di decidere cosa fare di sé e dell’alleato russo, intrappolandolo in una politica di accondiscendenza verso la pace voluta dagli europei o abbandonandolo al proprio destino bellico. Può ben darsi che la Cina non scelga affatto, mantenendo una rendita di posizione straordinaria e immeritata, forse rischiosa ma garantita da una guerra fratricida che in Europa logora comunque alleati e rivali.
Di certo l’insipiente diplomazia del Cremlino, ormai tracotante e irrealistica, non sarà seppellita dalla risata con cui persino la platea di Nuova Delhi ha schernito le risibili parole di Sergej Lavrov, quelle dette a proposito della «guerra che la Russia sta cercando di fermare e che è stata lanciata contro di lei». Se soccomberà, la politica russa lo farà altrimenti e forse proprio nella prova di forza evocata da Lavrov quel giorno stesso contro gli europei: «Se dicono che tutto questo è esistenziale per loro, è esistenziale anche per noi».
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