Nel romanzo di Gabriel García Márquez Il generale nel suo labirinto l’autore fa dire al suo protagonista, Simón Bolívar, che ogni colombiano è un paese nemico; più oltre rincara la dose dicendo che tutte le idee che passano per la testa ai colombiani sono fatte per dividere. Una diagnosi mai così vera se si considera il risultato delle elezioni presidenziali in Colombia di domenica 19 giugno. Gustavo Petro, leader della coalizione di centrosinistra Pacto Histórico vince infatti il ballottaggio con il 50,5% dei voti con più di 11 milioni di preferenze, mentre Rodolfo Hernández, outsider populista di destra, si ferma al 47,2% dei suffragi. Meno di 700 mila voti di differenza, un Paese spaccato a metà, come abilmente sottolineato da García Márquez nel lontano 1989. Sono passati più di trent’anni, eppure la Colombia è sempre lì a testimoniare la sua condanna, la sua malattia endemica di Stato polarizzato, una polarizzazione che non riesce a trovare un punto di incontro e di superamento e che riproduce continuamente un Paese diviso in due barricate in cui al centro non c’è nessuno che medi e che aiuti il dialogo. Sarà questo il primo compito di Petro, superare questo dualismo, questa tensione perenne e riconciliare finalmente la nazione. Un presidente di tutti, non solo dei tanti che lo hanno votato, ma capace di pacificare l’animo e il cervello dei tanti colombiani che hanno avuto paura del suo passato, del suo messaggio di cambiamento e che hanno preferito un outsider, senza programma e senza storia politica pur di non affidare la Colombia a un uomo di sinistra.

Una vittoria epocale, quella di Gustavo Petro, va detto: per la prima volta nella storia della Colombia una coalizione di sinistra, progressista, ecologista, femminista arriva al potere con le elezioni nel Paese. Ma è una vittoria anche per il resto dell’America Latina: sembra profilarsi all’orizzonte una nuova “ola” di sinistra, una nuova onda progressista nel continente, specie se i sondaggi attuali del Brasile confermeranno la vittoria di Lula ad ottobre. Interrogato in proposito da El País, su un nuovo asse progressista, Petro ha risposto che sì, potrebbe esserci una nuova corrente progressista nell’emisfero sud, che abbia tra i suoi punti qualificanti la conoscenza, la cultura e l’agricoltura. Ma è una sinistra diversa da quella tradizionale del primo decennio del secolo.

C’erano un po’ tutti i presupposti della vittoria già domenica 29 maggio quando chiuse le urne, al primo turno, Gustavo Petro aveva ottenuto il 40,34% dei voti, più di 8 milioni e mezzo di preferenze. Un risultato robusto, oltre 4 milioni in più rispetto al primo turno delle presidenziali del 2018, perse poi da Petro al ballottaggio, e mezzo milione in più del secondo turno. Rodolfo Hernández de la Liga de Gobernantes Anticorrupción aveva ottenuto a sorpresa il 28,15%, con quasi 6 milioni di preferenze. Usciva di scena, domenica 29 maggio, la ultra destra urubista: il suo candidato Federico Gutiérrez arrivava terzo con poco meno del 24% dei suffragi. Ma a sparigliare le carte di Petro arrivava l’endorsement di Gutiérrez a Hernández, scontato se si considera la petrofobia della destra colombiana: al ballottaggio invitava i suoi tanti elettori a votare per l’incognita Hernández. Sembrava fatta per la destra, 11 milioni di voti la somma dei due e partita finita. Petro sapeva bene di aver bisogno di almeno un altro milione e mezzo di voti per vincere. E allora la decisone di dare una svolta alla campagna elettorale, cambiando segno e approccio: piccole riunioni, porta a porta, e non più manifestazioni oceaniche dove chi partecipa è già convinto della scelta da fare. Tutto questo con l’obiettivo di rassicurare chi non lo aveva scelto al primo turno e convincere magari gli elettori moderati che cambiare si può, ma con saggezza e responsabilità, rispettando la costituzione del Paese. Guardava, Petro, a una parte dell’elettorato del candidato di centro, quello di Sergio Fajardo, che aveva preso il 4% dei suffragi al primo turno e in generale al ceto medio che vuole un cambiamento che garantisca anche la resurrezione economica e sociale della Colombia. Guardava Petro all’elettorato che non era andato a votare al primo turno (rispetto al quale la percentuale di votanti a questo ballottaggio è aumentata del 3%!). Non è un caso che pochi giorni prima della chiusura della campagna, Petro, proprio con l’intento di sommare voti “centristi”, dei giovani e degli astenuti, in un discorso già con allure presidenziale aveva dato cinque garanzie «fondamentali e non negoziabili»: la non rielezione; un impegno sulla giustizia; lavorare senza sosta per superare l’attuale crisi economica e sociale; rispettare le leggi e la Costituzione e, infine, lottare contro la corruzione e il narcotraffico. Il suo accenno al rispetto della Costituzione, che sembrerebbe scontato, aveva il significato anche di rispettare il diritto alla proprietà privata (durante la campagna elettorale la destra aveva balenato l’ipotesi di confische nel caso di vittoria di Petro con l’intenzione di alienare il voto moderato).

Immani le sfide che ha di fronte l’ex guerrigliero dell’M-19 (Movimiento 19 de abril): in primo luogo l’imprescindibile implementazione degli accordi di pace, siglati a L’Avana nel 2016. Petro è consapevole che senza pace non c’è sviluppo né progresso sociale. Durante il mandato di Iván Duque, l’attuale presidente, sono stati fatti pochissimi passi avanti (“Faremo carta straccia degli accordi di pace” era il mantra del periodo), con migliaia di persone rimaste nel guado e che sono andate a ingrossare le fila della guerriglia delle nuove FARC, e questa situazione ha creato un processo di disillusione profonda anche nell’altra guerriglia, l’ELN (Ejército de Liberación Nacional). Anche l’episcopato cattolico ha preso decisamente posizione in tal senso dopo questo ballottaggio, lasciando da parte le timidezze del passato e dicendosi impegnato nel processo di pace. Come se non bastasse, è aumentata a dismisura la violenza in Colombia: dall’inizio dell’anno sono stati assassinati 71 leader sociali, 18 ex combattenti, ci sono stati 39 massacri e 70 mila sono gli sfollati; c’è stato, in piena campagna elettorale presidenziale, il blocco armato delle AGC (Autodefensas Gaitanistas de Colombia), o Clan del Golfo, un gruppo paramilitare che ha tenuto in ostaggio intere porzioni del territorio colombiano. Dalla firma degli accordi di pace sono quasi un migliaio le persone uccise, tutte impegnate nella riconciliazione e nella pacificazione, difensori dei diritti umani, leader sociali, campesinos.

Un’altra sfida di Petro e Francia Márquez – sua vicepresidente, paladina dei diritti umani e ecologista riconosciuta – è quella della riforma agraria, croce e delizia dell’America Latina, che finalmente colpisca la disuguaglianza nella proprietà e nell’uso della terra, garantendo il diritto a quest’ultima delle famiglie rurali (con le donne come priorità) e la formalizzazione della proprietà.

Un’altra riforma urgente è quella fiscale: secondo Petro, l’attuale sistema avvantaggia chiaramente le persone più ricche. L’idea è quella di aumentare le imposte alle 4.000 maggiori fortune del Paese (peraltro già censite) per diminuire il presente deficit di bilancio. Tra le altre riforme, quella pensionistica e l’estensione della scuola pubblica gratuita fino all’università. Insomma, un deciso cambio di passo. Il neopresidente vuole cambiare il modello produttivo del Paese e iniziare una transizione energetica per ridurre la dipendenza dal petrolio. Come hanno già scritto, Petro non vuole soltanto un buon governo per la Colombia, vuole trasformarla profondamente: il 7 agosto si insedierà alla Casa de Nariño e finalmente una nuova era comincerà per un Paese tanto affascinante quanto complesso qual è la Colombia.

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