30 dicembre 2020

Voci dalla pace fragile del Nagorno-Karabakh

«Quella era la sede del KGB in epoca sovietica», la guida indica ciò che resta di un edificio che quando era in piedi non dev’essere stato poi così enorme. Il vecchio quartier generale della polizia segreta sovietica a Füzuli oggi non ha più il soffitto, i muri un tempo bianchi sono sporchi, divorati dalla vegetazione selvaggia ed è difficile distinguerlo dagli altri edifici nelle vicinanze che si presentano nelle stesse condizioni. Nel Karabakh regna la desolazione. I resti di abitazioni e palazzi d’epoca sovietica appaiono spettrali tra le trincee scavate delle forze armene che per quasi trent’anni hanno controllato sette province ai piedi del Nagorno-Karabakh, l’area montana della regione, per difenderla. Füzuli è una di queste.

Resti di un antico edificio, Füzuli, Karabakh (foto di Filippo Cicciù)

Prima del crollo dell’URSS era una cittadina di quasi 20 mila abitanti, per la stragrande maggioranza azeri. Subito dopo la capitolazione dell’Unione Sovietica, Armenia e Azerbaigian hanno combattuto duramente per il territorio disputato del Nagorno-Karabakh. Le forze armene hanno prevalso nel 1994 in quella che è ricordata come la prima guerra del Karabakh. Dopo la vittoria, l’Armenia ha preso il controllo non solo del Nagorno-Karabakh ma anche di altre zone limitrofe, come Füzuli. Nelle province ai piedi delle alte montagne, la popolazione azera, quasi un milione di persone, è stata evacuata e la zona utilizzata per decenni come postazione difensiva militare dagli armeni. Se nelle montagne del Nagorno-Karabakh la maggioranza della popolazione era armena anche prima del crollo dell’URSS, la situazione era diversa nella zona collinare e pianeggiante dove le città azere evacuate non sono state preservate ma distrutte dalle forze armene che dopo la vittoria nel primo conflitto nel Karabakh hanno utilizzato l’area come una linea militare.

Il conflitto del Karabakh in quasi trent’anni non si è mai arrestato. Regolarmente la violenza è tornata a disturbare il fragile status quo postsovietico dove l’Armenia si era imposta militarmente sull’Azerbaigian mantenendo il controllo non solo del Nagorno-Karabakh, che prese il nome di Repubblica di Artsakh, ma anche di altre zone circostanti, senza però mai ottenere un riconoscimento internazionale di questo dominio territoriale. Alcune risoluzioni dell’ONU ‒ sebbene con parere contrario di Francia, USA e Russia oltre che dell’Armenia ‒ avevano chiesto esplicitamente a Erevan di abbandonare questi territori, assegnati all’Azerbaigian con il crollo dell’URSS e definiti “occupati” dalle forze armene nei documenti delle Nazioni Unite.

Nel 2016 si erano verificati i più recenti scontri prima che quest’estate e soprattutto durante l’autunno il conflitto prendesse la forma di una guerra aperta che in sei settimane, tra settembre e novembre, ha portato questa volta l’Azerbaigian a prevalere. Oggi, a poco più di un mese dal cessate il fuoco imposto dalla Russia di Vladimir Putin e accettato dalle parti, i soldati armeni hanno lasciato le postazioni difensive nelle sette province ai piedi del Nagorno-Karabakh. Per evitare che il cessate il fuoco venga violato, la Russia ha schierato le sue forze armate nelle zone di montagna che sono in gran parte ancora sotto il controllo degli armeni. Un centinaio di soldati turchi sono invece arrivati recentemente in Azerbaigian per aiutare le forze azere a bonificare i territori delle province di pianura del Karabakh dalle mine che i soldati armeni hanno lasciato quando si sono ritirati.

Missile inesploso a bordo di una strada, Füzuli, Karabakh (foto di Filippo Cicciù)

Visitando oggi queste città fantasma, come Füzuli, si è consapevoli che gran parte del territorio è minato. A bordo delle rare strade asfaltate talvolta si vedono carcasse di carri armati sfondati e i cilindri metallici di missili inesplosi conficcati di sbieco su un terreno cosparso di fosse aperte da colpi di mortaio. Il fondale di questa scena è dipinto da ciò che resta delle abitazioni di epoca sovietica che gli azeri ritengono siano state negli scorsi decenni prima depredate e poi distrutte. I segni del recente conflitto sono fori di proiettile che squarciano le pareti di una delle basi militari che gli armeni utilizzavano per coordinare le operazioni.

Ci fermiamo davanti ai resti di un edificio che si fatica a capire fosse stato in passato una moschea. Non ci sono più i minareti ma avvicinandosi si possono vedere chiaramente le iscrizioni sacre islamiche in bassorilievo che adornano ciò che resta delle pareti esterne. Entrando nell’edificio ci si accorge che non è stato dissacrato solo dall’orrore della guerra, ma anche dai resti di una stalla per maiali messa in piedi in un angolo dentro la moschea, mentre una sorta di figura che vorrebbe ricordare Gesù Cristo è stata volgarmente incisa sul marmo del mirhab. Gli azeri che ci conducono nelle città fantasma del Karabakh sostengono che i soldati armeni abbiano praticato questo tipo di vandalismo anche in molte altre moschee della zona. Sono trentenni originari del posto quelli che ci accompagnano, hanno un ricordo confuso del trauma dell’evacuazione forzata dalle loro case subito nei primi anni Novanta e i racconti dei genitori scolpiti nel cuore. Guardando i resti di quel che rimane dei loro paesi esprimono rabbia e dolore, con orgoglio sognano di vedere qui sorgere nuove città, preservando parte dell’attuale scenario di distruzione come monumento commemorativo delle vittime del conflitto e memoria storica. È ancora troppo presto per parlare seriamente di ricostruzione. I soldati azeri che oggi pattugliano il Karabakh sono impegnati a rimuovere le mine dal territorio e stimano “ci potrebbero volere anni” senza essere ancora riusciti a mappare la totalità del territorio che hanno riconquistato.

Campo minato nei pressi di Ağdam, Karabakh (foto di Filippo Cicciù)

È una pace ancora fragile e surreale quella che si staglia nella desolazione del Karabakh. La tregua raggiunta con la mediazione russa regge da oltre un mese, anche se alcuni soldati azeri sono morti nelle scorse settimane inciampando sopra delle mine mentre tra le montagne talvolta si aprono sporadici conflitti a fuoco e l’Armenia ha denunciato decine di perdite tra i suoi uomini nelle ultime settimane. Migliaia di soldati russi pattugliano il territorio e stanno mettendo in piedi sedici postazioni militari per controllare il nuovo confine emerso dopo il recente conflitto. Vladimir Putin ha saputo dare la direzione alla guerra riuscendo a mantenere un rapporto con l’Azerbaigian di Ilham Aliyev e senza abbandonare il sostegno all’Armenia, alleato storico nella regione. In realtà, la tregua raggiunta con l’intermediazione di Mosca il 10 novembre segna una sconfitta per l’Armenia che ha perduto non solo migliaia di soldati ma anche gran parte di territori che prima controllava. L’umiliazione subita sul campo di battaglia e per molti il lutto di aver perso in guerra un parente hanno portato da settimane migliaia di persone a manifestare a Erevan chiedendo le dimissioni del premier Nikol Pashinyan, andato al potere dopo aver guidato proteste di piazza in Armenia nel 2018 e mai davvero gradito a Putin. Il presidente russo è oggi l’arbitro della pace nel Nagorno-Karabakh e sicuramente non disdegnerebbe che il malcontento degli armeni provocasse un cambiamento di regime a Erevan. Pashinyan in questi giorni ha trovato persone pronte a contestarlo, e sacerdoti che si sono rifiutati di stringergli la mano, non solo nella capitale armena, ma anche nei territori devastati dal conflitto del Nagorno-Karabakh dove si era recato. Il premier armeno ha mandato migliaia di soldati a Stepanakert, la capitale dell’autoproclamata Repubblica di Artsakh del Nagorno-Karabakh, sbagliando i calcoli probabilmente dal punto di vista militare per poi essere costretto ad accettare di rinunciare a parte del territorio. Più che avere sottostimato l’Azerbaigian, molto più forte oggi rispetto al conflitto dei primi anni Novanta, l’Armenia forse si attendeva un sostegno concreto da parte di Francia e USA, alleati storici e Paesi dove è presente gran parte della diaspora armena. Un aiuto che però non è mai arrivato, se non nella forma di dichiarazioni che non hanno potuto modificare la situazione sul campo di battaglia.

Dopo il crollo dell’URSS e la prima guerra del Karabakh, l’Azerbaigian si è trasformato in una solida potenza energetica legandosi sempre di più agli Stati europei e diventando influente a Bruxelles. Gli appelli dell’Unione Europea per chiedere la fine della violenza hanno avuto l’effetto di un soffio troppo debole per spegnere il fuoco del conflitto, domato da Putin quando l’Azerbaigian era riuscito a riprendersi le sette province del Karabakh ai piedi delle montagne. Il trambusto delle elezioni negli Stati Uniti ha contribuito a tenere l’influenza di Washington questa volta lontana dal Caucaso. È comunque l’aiuto militare all’Azerbaigian da parte non solo della Turchia, ma anche di Israele ad essersi rivelato però fondamentale nel decretare l’esito del conflitto. I soldati armeni non erano pronti a competere anche con i droni turchi nel cielo e con armi fornite da Netanyahu che ha manifestato pubblicamente sostegno per la vittoria azera. La Turchia non ha solo assistito militarmente l’Azerbaigian, ma anche voluto ostentare una vicinanza “fraterna” nei confronti di Baku, mostrando enormi bandiere azere appese assieme a quelle nazionali nelle maggiori città turche. Un gesto idealmente in nome della comunità tra popoli turcici, ma da guardare anche alla luce dei brillanti affari – come il gasdotto che da Baku arriva in Turchia attraverso la Georgia evitando il territorio armeno – nati dallo stretto rapporto tra Erdoğan e il capo di stato azero Aliyev.

 

Immagine di copertina: Resti di una moschea nei pressi di Füzuli, Karabakh (foto di Filippo Cicciù)

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