La deflagrazione avvenne nell’agosto del 2017, quando il governo militare di Myanmar lanciò una durissima campagna contro i Rohingya in risposta a rivolte esplose nelle regioni occidentali, che costrinse oltre 700.000 individui a fuggire dallo Stato di Rakhine (sud-ovest del Paese), dove risiedevano in massa da secoli (il governo, in realtà, sostiene che non siano indigeni, ma immigrati da non più di un secolo), per cercare rifugio nel vicino Bangladesh. Ma la discriminazione verso questa minoranza di fede musulmana vista come estranea alla religione, la cittadinanza e la storia birmane ed esclusa dai 135 gruppi etnici riconosciuti dal governo, va avanti da decenni. Il pugno di ferro mostrato da Yangon nell’estate del 2017 fu il culmine di politiche che molti definiscono “apartheid-style” e che hanno sostanzialmente negato ai Rohingya i loro diritti basilari per generazioni, privandoli finanche di una vera e propria identità.

Ad oggi sono circa un milione i Rohingya fuggiti dalle loro terre e ospitati, tra mille problemi, nel vicino Bangladesh (alcune migliaia risiedono in India e Malaysia), in campi sovraffollati e fatiscenti, costantemente esposti a ogni sorta di pericolo, tra disastri naturali e campagne di odio, ora anche il Coronavirus. I restanti 500.000 Rohingya, vivono ancora nello Stato di Rakhine e sono oggetto di limitazioni di movimento, nell’accesso all’istruzione e alla sanità o, come nel caso di circa 125.000 individui, chiusi in campi di contenzione dal 2012, a seguito di scontri. Le Nazioni Unite (ONU) ci vanno giù pesante parlando di genocidio e chiedendo che il governo sia giudicato per l’inumano trattamento riservato alla minoranza. La questione ha sollevato un caso clamoroso anche attorno alla figura immacolata – fino a qualche anno fa – di Aung San Suu Kyi, la campionessa birmana dei diritti umani, incarcerata per anni a causa della sua attività antigovernativa e dal 2016 ministro degli Esteri e leader de facto del Paese. Il suo silenzio, per alcuni sconfinato in acquiescenza, nei confronti delle politiche del governo verso i Rohingya l’ha screditata pesantemente tra l’opinione pubblica mondiale così come in quella interna: nelle elezioni del 2018 il suo partito, la Lega nazionale per la democrazia ha avuto un netto calo di preferenze. La leader birmana ha dovuto difendere il suo esecutivo (e se stessa) davanti ai giudici del Tribunale internazionale dell’Aia dalle accuse di genocidio e dalle testimonianze di stupri di massa (nel corso del 2019 ispettori ONU hanno visitato i campi profughi in Bangladesh e Malaysia e hanno stilato un durissimo rapporto che denuncia, tra l’altro, lo stupro sistematico di donne Rohingya a opera dell’esercito birmano) saccheggi, distruzione di villaggi e stragi.

La tesi della premio Nobel secondo cui l’esercito birmano ha agito così in risposta agli attacchi compiuti dai ribelli Rohingya tra il 2016 e il 2017 risulta debole di fronte a quello che tantissime organizzazioni definiscono un uso spropositato della forza. Di recente, una nuova accusa di genocidio è stata presentata alla Corte internazionale di giustizia dal Gambia, il piccolo Paese africano che ben conosce violenze e discriminazioni per essersi liberato solo di recente ‒ dicembre 2016 ‒ da una feroce dittatura. La petizione, da qualche osservatore giudicata più ‘musulmana’ che ispirata alla difesa dei diritti, conta sul sostegno dei 57 membri dell’Organizzazione della cooperazione islamica.

Nel frattempo, le condizioni dei Rohingya dislocati nei campi profughi più popolosi al mondo – solo nel campo di Kutupalong, distretto di Cox’s Bazar (estrema punta sud-orientale del Bangladesh), risiedono 600.000 individui – si fanno ogni giorno più precarie. Circa un milione di persone scappate a piedi o su imbarcazioni di fortuna (sono moltissimi i dispersi o i morti in mare) vivono in baracche improvvisate e nella quasi totalità (94%) non hanno documenti di nessun tipo. Oltre alle enormi difficoltà di integrazione che spesso sfociano in campagne di odio nei loro confronti, devono fronteggiare le ricorrenti crisi ambientali – l’area è tra le più soggette a disastri – e ora anche l’emergenza Covid-19. Nel campo profughi di Kutupalong, il più grande al mondo, si sono registrati 25 casi di Coronavirus proprio sul finire di maggio. È stata imposta una quarantena a 15.000 rifugiati, ma i timori di una rapida diffusione, che potrebbe essere impossibile da gestire, aumentano. A far sperare in meglio c’è l’età estremamente giovane della popolazione. Ma a far temere il peggio c’è una promiscuità tra le più alte del pianeta, la sostanziale impossibilità di distanziamento sociale, la scarsa igiene e la grave povertà dei mezzi. La concentrazione di uomini ed energie sul Covid-19, inoltre, sta alienando le attenzioni richieste da altre patologie presenti nei campi.

La storia dei Rohingya vive un nuovo capitolo drammatico e controverso. Yangon continua ad accusarli di aver innescato la miccia dell’incendio con i tumulti del 2016, i loro rappresentanti a dichiararsi vittime di un sistema di segregazione. Nel mezzo c’è l’autorevole posizione di Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, primo cardinale della storia birmana e presidente della Federazione delle conferenze episcopali di tutta l’Asia, che in un convegno organizzato da Religions for Peace, ha cosi dichiarato: «La mia impressione è che i media abbiano preso una posizione molto forte a favore dei Rohingya, limitandosi purtroppo a raccontare solo un lato della storia. Esistono molti tentativi della Chiesa di concerto con leader musulmani, buddisti e indù per facilitare il ritorno dei Rohingya in maniera pianificata, dignitosa, volontaria e sicura». L’urgenza, allora, è intanto assicurare condizioni dignitose al milione di profughi, subito dopo concordare un piano per il ritorno a casa e una convivenza, se non pacifica, rispettosa.

Immagine: Bambini nel campo profughi Rohingya di Kutupalong, Cox’s Bazar, Bangladesh (6 febbraio 2019). Crediti: CAPTAIN RAJU [CC BY-SA (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)], attraverso commons.wikimedia.org

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