25 marzo 2021

La geopolitica dei vaccini

La corsa alla scoperta dei vaccini anti-Covid, così come la capacità di produrli e la volontà di distribuirli in giro per il mondo, si sta trasformando in una competizione tra potenze nella quale, oltre alle vite, sono in gioco relazioni internazionali, la proiezione di soft power e più in generale il ruolo dei diversi Paesi nell’immaginario globale. Come avvertiva il poeta mistico persiano Rumi: «dove ci sono rovine, c’è la speranza di un tesoro». La pandemia non fa eccezione, anche dal punto di vista delle opportunità di rimessa in discussione degli equilibri geopolitici offerta dalla cosiddetta “diplomazia dei vaccini”.

 

L’Europa ai margini del “grande gioco” dei vaccini

Le dichiarazioni del presidente russo Putin, che lunedì scorso accusava l’Unione Europea (UE) di anteporre l’interesse delle case farmaceutiche a quello dei propri cittadini è stato soltanto l’ultimo degli ormai regolari scambi, a volte poco diplomatici, tra Mosca e Bruxelles riguardo al vaccino russo Sputnik.

In uno di questi, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, domandava retoricamente come mai la Russia stesse offrendo milioni di dosi all’estero mentre era così indietro nella vaccinazione dei propri cittadini. Un’uscita che mostra due soggetti impegnati in imprese radicalmente diverse: da un lato un’operazione logistico-commerciale di acquisizione di dosi per proteggere la propria popolazione, dall’altro la consapevolezza di poter utilizzare queste forniture sanitarie per proiettare il proprio soft power e conquistare spazi geopolitici rilevanti. La seconda di queste impostazioni vede al momento come protagonisti, oltre alla Russia, anche la Cina e l’India. Ma non soltanto.

La diplomazia sanitaria non nasce con il Covid: si pensi al mito dei medici cubani in missione umanitaria, oppure alla campagna per l’eradicazione del vaiolo, legata in non piccola parte alla competizione tra Unione Sovietica e Stati Uniti per l’influenza in Africa e Sud America. Forse mai come nel caso dell’attuale diplomazia dei vaccini, però, è stato evidente e senza maschere il gioco globale di influenza in corso tra potenze globali, regionali e anche da soggetti solitari con esigenze o ambizioni geostrategiche particolari.

In Europa vediamo quotidianamente soltanto una piccola parte di questa competizione, ovvero soprattutto quella legata al cosiddetto “nazionalismo dei vaccini”. Fedele alla propria impostazione burocratica, Bruxelles ha messo in mostra prima di tutto la propria meticolosità nei percorsi di autorizzazione dei vaccini e poi ne ha gestito gli acquisti comportandosi in pratica come un’immensa CONSIP: occupandosi di contabilizzare e far pesare i propri numeri demografici e le capacità economiche per cercare di assicurarsi le forniture necessarie alle proprie esigenze interne.

Quando poi ha scoperto di non avere neppure ottenuto offerte convenienti e ha provato ad agire da potenza, ad esempio minacciando il blocco delle esportazioni, l’UE ha finito per attrarsi anche accuse di chiusura ed egoismo. Una sconfitta d’immagine ancora più assurda, se si pensa come l’Unione Europea da sola (e ancora di più sommando anche i contributi dei singoli Stati membri) sia tra i principali finanziatori del programma COVAX dell’Organizzazione mondiale della sanità, dedicato alla copertura vaccinale anti-Covid nei Paesi poveri.

Ma mentre Bruxelles era concentrata sulle diatribe relative alle clausole contrattuali con le case farmaceutiche, avvincenti per le masse come le trattative commerciali tra gli emissari jedi e la Federazione dei Mercanti nel primo dei prequel di Star Wars (non a caso uno dei film più odiati della storia), gli altri giocatori globali erano impegnati in uno scontro ben più strategico, che unisce aspetti scientifici, produttivi e industriali a quelli politici e in larga parte comunicativi e simbolici.

 

Le alternative al modello americano, tra sovranisti e multinazionali

Per comprendere gli sviluppi di questo scontro, occorre innanzitutto tracciarne i confini: secondo uno studio della fondazione CEPI (Coalition for Epidemic Preparedness Innovations), sulla distribuzione geografica degli investimenti per lo sviluppo dei vaccini anti-Covid, il 40% del totale è concentrato in Nord America, il 30% in Asia e Australia, il 26% in Europa e il restante 4% tra Africa e Sud America.

A marzo 2021 ciò aveva portato all’autorizzazione a livello mondiale di dodici vaccini (dei quali quattro permessi in Europa). Altri venticinque vaccini si trovano nella cosiddetta fase 3 (l’ultima prima del via libera), quaranta in fase 2 e qualcuno di meno in fase 1 (tra i quali anche quello “italiano” di ReiThera). Altre centinaia sono in fase preclinica.

Dei dodici vaccini approvati, quattro sono cinesi, tre russi, due americani, uno britannico e uno indiano. Gli europei sono presenti soltanto con le compartecipazioni (rispettivamente tedesca e olandese) ai due vaccini americani Pfizer e Johnson & Johnson e con la compartecipazione svedese in quello AstraZeneca.

Già questi dati mostrano un approccio divergente, tra Paesi come Cina e Russia che si sono concentrati nella produzione autarchica di un proprio vaccino e chi si è, come ad esempio tutti i Paesi del G7, affidato alle competenze delle multinazionali farmaceutiche.

I successi iniziali sembravano dare ragione alla strategia e della ricerca “occidentale”: il primo vaccino a ricevere avalli internazionali è infatti quello frutto della collaborazione atlantica tra Pfizer e BioNTech. Poi seguito da quello di AstraZeneca.

Ma se da un lato ciò ha apparentemente confermato il primato degli Stati Uniti, rappresentati in questo caso da “Big Pharma” (coerentemente con il proprio modello economico), dall’altro lato Washington non ha saputo sfruttare altrettanto bene sul piano dell’immaginario questo vantaggio temporale nella corsa alla cura. Ciò è avvenuto in parte, ma non soltanto, perché ciò è coinciso con il momento del passaggio di consegne tra un presidente che aveva derubricato la pandemia a bufala e uno non ancora insediato e senza le chiavi della macchina amministrativa e simbolica.

Nel primo giorno del proprio mandato, Joe Biden ha annullato la decisione del proprio predecessore di uscire dall’Organizzazione mondiale della sanità, ma ormai era tardi per ricoprire con credibilità il ruolo di capofila nello sforzo internazionale comune verso la soluzione alla pandemia. Soprattutto visto con gli occhi di chi abita nei Sud del mondo.

Nel frattempo, erano arrivati gli altri sette vaccini da Cina, Russia e India. Con la significativa eccezione del martoriato e inerme Brasile a fare la figura del paziente malato, si tratta proprio dei Paesi del vecchio acronimo BRIC, coniato nel 2001 per indicare Paesi economicamente emergenti, che trovano nella pandemia l’occasione per candidarsi a sorpassare anche nel soft power (non solo sanitario) le potenze transatlantiche.

Ma se questi tre Paesi stanno giocando una partita apparentemente simile, hanno in realtà esigenze di immagine e obiettivi geopolitici differenti.

 

La Cina pianifica oltre l’emergenza

La Cina comprende fin dalle prime settimane del 2020 la necessità di ricostruirsi una reputazione, dopo la gestione opaca dello scoppio della pandemia e le accuse globali. Lo fa innanzitutto con la spietata efficienza del sistema di isolamento dei focolai, che porta (quantomeno a loro dire) a uscire quasi per prima dall’emergenza. Inizia allora a inviare medici e attrezzature all’estero (compresa l’Italia) per “indicare la via”.

È l’anteprima della diplomazia dei vaccini, che prende l’aspetto simbolico della “diplomazia delle mascherine”. Subito replicata anche dalla Russia, con le immagini degli aerei cargo inviati a Bergamo da Putin rilanciati su tutti i telegiornali. In entrambi i casi si tratta in genere di quantitativi limitati, ma dal forte impatto mediatico tra popolazioni confuse dall’inedita emergenza.

Nel frattempo la Cina era già al lavoro sui vaccini e non appena il primo è stato pronto, sviluppato proprio a Wuhan dalla Sinopharm, è iniziata una nuova fase della strategia di Pechino: tenere al minimo le vaccinazioni interne, contando sulla bassa incidenza della malattia tra i propri confini, e concentrare la capacità produttiva nell’esportazione. Con l’ambizione di mostrare ancora una volta la guida cinese verso la soluzione globale della pandemia.

Data la partecipazione alla fase 3 della ricerca di decine di migliaia di pazienti all’estero, il suo uso a livello internazionale anticipa in un certo senso quello degli omologhi americani. Ma è a partire da gennaio 2021 che prende il via la massa di autorizzazioni straniere per l’utilizzo d’emergenza. Per il vaccino Sinopharm, ad esempio, si aprono le porte di una ventina di Paesi tra Asia e Medio Oriente, tredici in Africa, otto tra America Centrale e Meridionale, persino sei in Europa, con addirittura una penetrazione all’interno dell’UE grazie all’Ungheria di Orbán, nonostante la messa in guardia dell’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA, European Medicines Agency).

Significativa anche l’approvazione del vaccino Sinovac da parte dell’Ucraina: isolata e schiacciata tra i blocchi alle esportazioni da parte dei teorici alleati occidentali e la volontà di respingere le offerte russe, Kiev sceglie la via cinese, per poi però trovarsi di fronte a enormi ritardi sulle consegne.

Dal punto di vista del successo comunicativo, infatti, Pechino sconta sempre la poca trasparenza dei propri vertici. Nel caso dei vaccini, non sono stati resi pubblici i risultati delle sperimentazioni o condotte verifiche indipendenti e i percorsi di approvazione devono affidarsi a preanalisi prodotte dalla stessa Sinopharm. Così come non è nota la reale capacità produttiva delle sue aziende, probabilmente inferiore a quanto dichiarato.

Ciò indebolisce molto la capacità della Cina di posizionarsi come un soggetto credibile verso i Paesi occidentali, ma le donazioni di dosi, i prezzi bassi e le offerte di collaborazione costituiscono una ricetta irresistibile per i Paesi indietro sulla ricerca o incapaci di produzione e distribuzione autonoma. In questo senso, non si tratta tanto di soft power, inteso come attrarre a sé attraverso i propri valori intangibili, ma dell’hard power della più grande potenza industriale mondiale.

Da questo punto di vista, la Cina sta giocando una partita anche più lunga rispetto alle emozioni di questi mesi legate all’emergenza: molti dei suoi accordi, infatti, riguardano la realizzazione stessa di impianti di produzione (anche appunto per supplire alle sue attuali carenze) e logistica, soprattutto nei Paesi africani, ma anche in Sudamerica e si dice prossimamente pure in Serbia. Quando la pandemia da Covid sarà finita, questi poli produttivi invece resteranno a proiettare la presenza cinese, insieme alla rete di relazioni con essi costruita da Pechino.

 

L’India tra capacità produttiva e offerte di amicizia

Tra gli addetti ai lavori, l’India è nota come “la farmacia del mondo”. Nello specifico dei vaccini, le aziende del subcontinente ne producono oltre il 60% a livello globale. E se ciò è dovuto più alla propria enorme capacità produttiva, che a una qualità della ricerca che è ancora inferiore rispetto a quella di altri colossi, il Paese ha saputo anche sviluppare rapidamente un proprio vaccino alternativo, chiamato COVAXIN.

Forte di questi successi, l’India ha compreso come questa fosse l’occasione ideale per promuovere all’estero la propria alternativa alla forza industriale e geopolitica cinese. Per farlo, ha puntato da un lato sulla superiore affidabilità della propria filiera. Dall’altro su un approccio più umanitario, indicato fin dal nome dell’iniziativa Vaccine Maitri (all’incirca traducibile come “amicizia vaccinale”) che a metà marzo aveva già consegnato quasi 60 milioni di dosi in oltre 70 nazioni.

Oltre al proprio COVAXIN, l’India offre attraverso questo progetto anche il cosiddetto Covishield, che altro non è che lo stesso vaccino AstraZeneca ottenuto sotto licenza dalla multinazionale e replicato in 1,1 miliardi di dosi dal Serum Institute of India, il più grande produttore al mondo di vaccini, ancora prima che ne arrivasse l’approvazione.

I destinatari dell’iniziativa sono stati prima di tutto i Paesi più vicini geograficamente, come Afghanistan, Bhutan, Nepal e Sri Lanka. In alcuni casi si trattava di rispettare e consolidare amicizie durature, mentre in altri l’iniziativa è stata utile a ricucire relazioni tese, come ad esempio nel caso dei rapporti con il Bangladesh.

Tra quelli donati e quelli forniti a basso prezzo, l’India si è rivelata più rapida e affidabile rispetto alla Cina. Emblematico il caso del Myanmar, che ancora attende le 300.000 dosi promesse da Pechino, a fronte dei quasi 2 milioni di vaccini indiani già ricevuti. Mentre tornando al caso ucraino, dopo i ritardi delle consegne cinesi, la campagna vaccinale nel Paese è iniziata proprio attraverso mezzo milione di dosi della versione indiana del vaccino AstraZeneca.

Situazione simile anche in Iran, dove la ricerca di tre diversi vaccini è al momento ancora alla fase 1 e le sanzioni internazionali avrebbero impedito l’accesso ai vaccini delle multinazionali occidentali: la campagna vaccinale è dunque partita con forniture indiane. Mentre in prospettiva, Teheran sembra contare anche sulla collaborazione con Cuba, che deve affrontare un’analoga situazione di isolamento, ma il cui vaccino Soberana sarebbe già giunto alla terza fase di test.

Di tutto questo attivismo indiano, poco è giunto alle orecchie occidentali. Farà eccezione il Canada, unico Paese del G7 a ricevere lotti di vaccino sotto il cappello dell’iniziativa Vaccine Maitri. Ad esso si aggiungono nel Centro e Sud America anche il Messico e il Brasile, di nuovo vincendo la competizione con la Cina anche a livello d’immagine: con un sondaggio che certificava come la metà dei brasiliani si rifiutasse di prendere il vaccino Sinovac, mentre il presidente Bolsonaro twittava la propria gratitudine all’India, condividendo un’immagine della divinità induista Hanuman in veste di curatore.

La sfida indiana al modello cinese è arrivata anche sul piano della trasparenza: a fronte dell’opacità degli istituti di Pechino, ad esempio, l’India ha organizzato viaggi per ambasciatori e diplomatici per visitare le industrie farmaceutiche a Hyderabad e Pune. Il tutto vissuto anche come opportunità per promuovere in futuro la produzione in loco di altri farmaci. Mentre la Cina cercava occasioni per costruire fabbriche in altri Paesi, l’India ha l’opposta esigenza di trovare richieste e clienti per sfruttare a pieno i propri già enormi impianti esistenti.

In comune con la Cina (e la Russia, come vedremo tra poco) anche l’India è, però, indietro rispetto alla copertura vaccinale della propria popolazione. Arrivando addirittura al paradosso di essere il primo Paese destinatario del programma COVAX dell’Organizzazione mondiale della sanità. Essendo al tempo stesso il principale luogo di produzione degli stessi vaccini. Una contraddizione che sembrerebbe mostrare un Paese ancora nel guado tra potenza e bisogno.

 

Le ambizioni russe al “tavolo buono”

Come ricordato all’inizio, il governo di Mosca è stato probabilmente il soggetto più attivo nella propria campagna informativa (e disinformativa) all’estero sul fronte vaccinale. Anche in Italia, dove la possibilità dell’utilizzo del suo Sputnik V ancora divide l’opinione pubblica.

Se molti elementi della strategia russa coincidono con quanto visto nel caso cinese o in quello indiano, soprattutto per quanto riguarda gli aiuti agli Stati confinanti e nei Paesi più poveri, infatti, il piano di Putin si distingue per essere l’unico ad avere cercato di portare la partita direttamente nel campo di Unione Europea e Stati Uniti.

Da questo punto di vista, la diplomazia dei vaccini di Mosca appare in linea con le due tradizionali ambizioni dell’attuale leadership: riconquistare l’influenza perduta nell’ex sfera sovietica e nei Paesi a essa legati, ma al tempo stesso farsi riconoscere al tavolo dei “grandi” e riconquistarvi la poltrona che ritiene di meritare di diritto.

Sul primo fronte, i risultati sono in linea con quelli dei concorrenti, almeno per quanto riguarda le richieste. Tra autorizzazioni piene, emergenziali e dosi ordinate in anticipo, attualmente lo Sputnik è già operativo in 56 Paesi, tra cui praticamente tutta l’Asia, tutto il Sud America e una decina di Paesi africani. Molti mettono in dubbio la reale capacità di produrre le dosi promesse a livello mondiale, ma questo sarà chiaro soltanto nel corso dei prossimi mesi.

Il secondo obiettivo ha invece richiesto una considerevole dose di energie da parte della diplomazia russa e delle amicizie che Mosca ha coltivato negli scorsi anni negli ambienti sovranisti europei e americani, ma i risultati sono al momento difficili da valutare. In Europa ancora una volta sono state Ungheria e Serbia a muoversi in anticipo sugli altri, con l’aggiunta in questo caso anche della Slovacchia e di San Marino.

Negli Stati Uniti è significativo il cambio di registro del capo degli esperti virologi americani, Anthony Fauci, che mentre lo scorso agosto si era mostrato molto scettico sulla presunta efficacia dello Sputnik, pochi giorni fa ha dichiarato di averne visto alcuni dati e di averli trovati «piuttosto buoni».

In effetti, a differenza ad esempio di quelli cinesi, la Russia ha sottoposto il proprio vaccino al percorso di autorizzazione delle autorità europee. E sta siglando accordi per la produzione dello Sputnik, oltre che in India, Cina e Corea del Sud, anche in vari Paesi europei, a partire dall’Italia. Anche se in molti di questi casi le dosi non saranno destinate ai Paesi stessi di produzione, ma ad Africa, Sud America e alla Russia stessa, che non è in grado di coprire da sola il proprio fabbisogno.

 

Un conflitto comunicativo e l’assenza della comunità internazionale

Ciò che la Russia ha capito meglio di ogni altro è quanta parte di questo confronto si giocasse sugli aspetti simbolici, come testimonia perfettamente il nome stesso dato al proprio vaccino: Sputnik evoca volutamente un mondo, dei valori, un immaginario immediato. Evoca anche altri tempi, quelli dell’oro agli occhi di Putin, più complessi secondo altri, ma comunque per tutti più semplici nella loro assenza della pandemia e illuminati dalle sorti progressive della scienza (aerospaziale allora, medica oggi).

In generale, quelli dei vaccini dei Paesi che più di tutti stanno giocando questo gioco non sono le entità senza identità delle multinazionali del farmaco, che non fanno altro branding che non sia quello della corporation stessa. E che per questo vengono chiamati “il vaccino Pfizer”, “il vaccino AstraZeneca”, “il vaccino Moderna”: denominazioni utili soltanto ad aumentare i dividendi degli azionisti.

I vaccini cinesi, ad esempio, sono caratterizzati dall’elemento nazionalista Sino-/-Sino, che ne caratterizza le aziende produttrici e col quale sono chiamati comunemente: Sinopharm, Sinovac, CanSino. Quello indiano punta, come detto, sull’amicizia. Ma altrettanto simbolico è anche il citato vaccino cubano: Soberana richiama appunto il concetto di sovranità. Con il paradosso di riunire sotto questa bandiera (solitamente appannaggio di altri ambienti) il mondo della sinistra, che nelle proprie bolle sui social e sulla stampa di riferimento, esulta alle promesse di donarlo ai Paesi bisognosi.

Il Regno Unito è stato forse l’unico tra i Paesi europei a comprendere le opportunità insite in questa sfida, probabilmente proprio perché così bisognoso di un riposizionamento del proprio brand e di nuove relazioni internazionali nella propria era post-europea. Per mesi, il vaccino che oggi conosciamo come AstraZeneca è stato indicato come il “vaccino di Oxford”. Nulla avrebbe potuto essere più quintessenzialmente britannico in termini di qualità, eccellenza e valori.

Purtroppo per Boris Johnson, con la fine della sperimentazione e l’avvio della fase commerciale, l’etichetta è gradualmente stata rimpiazzata dal nome della multinazionale. Ma sempre sul piano comunicativo si gioca anche il ruolo di portavoce delle vittime del nazionalismo dei vaccini, interpretato dal premier britannico nel suo scontro con Bruxelles, nonostante egli stesso abbia bloccato le esportazioni di quelli prodotti all’interno del Regno.

Al netto della più volte richiamata iniziativa COVAX, l’assenza più grande in tutto questo scenario appare quella dell’ONU e dell’Organizzazione mondiale della sanità. Tra questi tiri alla fune simbolici, nazionalistici, industriali e commerciali, è fino ad ora venuta a mancare la funzione delle Nazioni Unite di unire gli sforzi verso un obiettivo comune. Lasciando che nell’attuale mondo multipolare la tutela della salute sia in balia delle proprie capacità economiche, dell’isolamento politico di alcune realtà o delle iniziative apparentemente benefiche di potenze interessate a espandere il proprio soft power. E chissà quanto consapevoli che in effetti soltanto insieme si uscirà davvero da questa situazione.

 

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Immagine: Il Vax Day, inizio della vaccinazione contro il Covid-19 a Milano (27 dicembre 2020). Crediti: faboi / Shutterstock.com

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