L’esito del  Referendum sull’abbandono del Regno Unito nell’Unione Europea permette fin d’ora alcune considerazioni generali sulla condizione della politica in Europa. La prima considerazione riguarda la fragilità stessa della politica, l'ineluttabile precarietà dei risultati che, a torto, sovente si considerano acquisiti. Un’errata concezione dominante, fondata su visioni teleologiche della storia e coltivata nell’idea che la ragion politica sia analoga alla razionalità economica, ha compromesso la percezione in Europa di questa pericolosa fragilità e oggi paga il conto: la storia è disseminata di eventi impensabili e inimmaginabili per le sue vittime, le quali ponevano la loro fiducia in una presunta logica storica che le tradì nel momento del bisogno. Questa concezione ha indebolito allo stremo l’idea stessa della politica in Europa e dell’Europa, nel tentativo di trasformarla in una sorta d’amministrazione legalistica legittimata dai criteri ossessivi dell’economia e dai canoni distorsivi di un’ottusa interpretazione strumentale della democrazia.
Oggi va ricordata la fatica diplomatica che nel secolo scorso condusse il Regno Unito nell’Unione Europea. Fu un grande negoziato decennale, oneroso e complesso, che permise l’adesione britannica all’Europa unita e l’appartenenza a un’istituzione nata per proteggere la sicurezza collettiva europea: l’Unione, appunto. Questa fatica diplomatica è stata prima annodata al cappio di un Referendum e poi giustiziata sotto gli sguardi imbelli degli spettatori europei, privi di ogni pudore. Con essa giace oggi quel principio d’interesse comune e condivisione insito nel concetto stesso di sicurezza collettiva, gravemente ferito fin dall’idea stessa di celebrare, per la prima volta nella storia, un Referendum per abbandonare l’Unione Europea.
È chiaro a chiunque che tale concetto e il principio che lo regge è stato profondamente corroso dalla condotta del Governo britannico, avanguardia di un allineamento di Stati attualmente incapaci di percepire la rilevanza degli interessi comuni della comunità europea e la necessità di governarli assennatamente. L’Esecutivo britannico ha deciso di celebrare un Referendum carico d’una ineludibile portata storica internazionale e con un’implicazione evidente che produce una pesante ripercussione. Costringe a considerare fin d’ora le mutate circostanze delle relazioni tra l’Unione, gli Stati membri e il Regno Unito, prescindendo dalle altre implicazioni dell’esito referendario; costringe altresì, e finalmente, a pensare la politica in Europa in quanto politica e non amministrazione. Costringe dunque a scelte politiche. È vero che il mutamento delle circostanze non invalida i principi, eppure ne distrugge la coerenza sostituendo situazioni nelle quali è possibile agire in modo coerente a tali principi con situazioni nelle quali è necessario scegliere tra di essi.
Tra le tante scelte necessarie risalta oggi una questione suprema. L’esito della minacciosa decisione del governo del Regno Unito di tenere il Referendum, peraltro in una fase di profonda crisi dell’Unione, spinge gli altri Stati membri ad abbandonare nei suoi confronti un principio d’unità e sceglierne uno differente. È quello che si adotta con gli estranei, con chi è o si pone `fuori‘. Così l’eclisse parziale della comunanza europea, causata dalla scelta del governo inglese, oscura oggi le isole britanniche e, con esse, l’orizzonte dell’Europa continentale, costretta a sanguinare. Che fare di fronte a questo trauma facilmente evitabile che irrompe nella storia dell’Europa unita? C’è un passo nel De rerum natura dove Lucrezio intima: «Non vedi dunque che, benché una forza esterna costringa spesso molti uomini a procedere contro il loro volere e a farsi trascinare a precipizio, tuttavia c’è nel nostro petto qualcosa che può fare resistenza e combattere?». Dai classici, anch’essi cuore ferito ma pulsante della vitalità europea, si può trarre sempre utile insegnamento politico.
L’esito del Referendum spinge anche, giocoforza, a una seconda riflessione sulla responsabilità e sulla capacità politica di chi, primo fra tanti, ha generato questa condizione che aggrava la crisi politica europea. Il Primo Ministro Cameron ha scelto indisturbato, tre anni orsono, il puro gioco d’azzardo. È una tipica postura del politico, naturale e spesso inevitabile bensì pericolosa perché richiede notevoli capacità. Oggi il giocatore d’azzardo destinato alla bancarotta ha raggiunto il nadir della futilità. È significativo e sintomatico che a rappresentare questo momento storico in Europa si stagli, per noi e per i posteri, l’immagine di un politicante e non di uno statista. È un simbolo politico aderente alla realtà europea d’oggi. L’enorme scelta di Cameron d’indire il Referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione è stata dovuta, sostanzialmente, alla piccola scommessa di rinsaldare la propria posizione personale all’interno di un partito nazionale e del sistema politico britannico. Stride violentemente, e non da ora, l’incalcolabile sproporzione tra mezzi e fini, il clamoroso divario tra il pervicace perseguimento dei propri interessi locali e la mancanza di percezione d’interessi più generali, finanche superiori, come la stabilità politica in Europa in un momento di crisi lancinante. Nel suo fallimentare gioco d’azzardo, il Primo Ministro, egli stesso contrario all’uscita del Regno Unito dall’Unione, ha forse calcolato tutto con razionale strategia salvo un esito completamente diverso da quello delle sue intenzioni. Ha trascurato anche, e soprattutto, di considerare che la fortuna dello statista non è quella dello scommettitore ma quella dello speculatore – nel senso proprio e filosofico del termine. Oggi, di fronte al proprio ruolo storico beffardo e all’amara constatazione dell’ironia della politica, potrebbe far sue le parole di Franco Fortini, ponendole a proprio epitaffio politico e forse anche nostro: “La storia ha un modo di ridere che è ripugnante”.

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