Come si è avuto modo di analizzare in alcuni articoli precedenti, fin dal suo arrivo al potere, Xi Jinping ha impresso una forte connotazione nazionalista al suo mandato, riassunta nello slogan del “sogno cinese” (Zhongguo meng), che si identifica con “il grande rinnovamento della nazione cinese” (Zhonghua minzu weida fuxing), da realizzarsi con il soddisfacimento dei cosiddetti due obiettivi centenari (‘liangge yibai nian’ fendou mubiao), quello del Partito comunista cinese (PCC) nel 2021 e quello della Repubblica popolare di Cina (RPC) nel 2049. Per il 2021, l’obiettivo è di “costruire una società moderatamente prospera sotto tutti gli aspetti” (quanmian jiancheng xiaokang shehui). Ciò significa essenzialmente assicurarsi che lo sviluppo del Paese migliori le condizioni di vita dell’intera popolazione, in particolare di coloro che vivono al di sotto o vicino alla soglia di povertà; per il 2049, l’obiettivo è invece di “costruire un moderno Paese socialista che sia prospero, forte, democratico, culturalmente avanzato e armonioso” (jiancheng fuqiang minzhu wenmin hexie meili de shehui zhuyi xiandaihua guojia). Questo è il motivo per cui gran parte delle riforme promosse negli ultimi lustri hanno avuto l’obiettivo di prevenire e/o controllare i rischi principali di destabilizzazione della società, puntando ad alleviare la povertà, ridurre i divari di crescita tra le diverse aree del Paese, frenare il tasso di inquinamento e approfondire le riforme strutturali dal lato dell’offerta, al fine di promuovere uno sviluppo economico e sociale sostenuto e sano. Nell’ottica della leadership cinese, l’attenzione riposta nella realizzazione dei due obiettivi ha lo scopo di continuare a garantirsi il consenso del popolo e salvaguardare la legittimità del potere del Partito comunista; rappresenta insomma una sorta di strumento di legittimazione per il Partito.

L’impostazione di questi obiettivi non è recente, ma è da rinvenirsi nella politica denghista post-Tienanmen. In una serie di discorsi tenuti da Deng Xiaoping durante il suo famoso Nanxun (viaggio di ispezione nelle province del Sud che, per prime, si erano aperte al mondo capitalista occidentale alla fine degli anni Settanta con la costituzione delle prime Zone economiche speciali) agli inizi del 1992, il piccolo timoniere attribuì la sopravvivenza del regime comunista e la sua apparente stabilità all’indomani dei fatti del 4 giugno 1989 in Cina, e più in generale delle Rivoluzioni del 1989 che misero la parola fine a molti regimi comunisti nei Paesi dell’Europa centrale e orientale e si conclusero con l’implosione dell’Unione Sovietica, alla politica di ‘riforma e apertura’ (‘gaige kaifang’ zhengce) avviata nel Paese dal terzo plenum dell’XI Comitato centrale del PCC nel dicembre del 1978. Non a caso, il filo conduttore dei discorsi pronunciati da Deng durante tutto il Nanxun fu “più riforma e più apertura”, nella consapevolezza che se non fosse stato per i risultati della suddetta politica, il PCC non sarebbe stato in grado di sopravvivere a un evento traumatico come quello del 4 giugno e il Paese sarebbe finito in preda al caos e alla guerra civile, con il rischio di subire un destino analogo a quello dell’Unione Sovietica. Fu in quella circostanza che Deng reiterò la sua ambiziosa Strategia di sviluppo in tre fasi (‘san bu zou’ fazhan zhanlüe), sviluppata gradualmente dalla fine degli anni Settanta ma svelata in occasione del XIII Congresso nazionale del Partito nel 1987. La prima fase della Strategia prevedeva il raddoppio della dimensione dell’economia cinese tra il 1981 e il 1990; la seconda, un ulteriore raddoppio dell’economia tra il 1991 e il 2000, e la conseguente trasformazione della Cina in una xiaokang shehui, ossia una società moderatamente prospera; la terza fase prevedeva infine di elevare il Paese al livello dei Paesi moderatamente sviluppati entro la metà del XXI secolo, coincidente con il centesimo anniversario della fondazione della RPC. Questi obiettivi, che rientravano nell’idea di costruire un’“economia socialista di mercato” (shehui zhuyi shichang jingji), furono ufficialmente inseriti nello Statuto del Partito in occasione del XIV Congresso nazionale svoltosi nell’ottobre del 1992. Con l’avvio del nuovo secolo la retorica denghista si era evoluta negli ‘obiettivi dei due centenari’ nei discorsi successivi dei leader cinesi, prima che fossero ufficializzati con l’inserimento nello Statuto del Partito, nel novembre 2012, in occasione del XVI Congresso che ha portato al potere la quinta generazione di governanti, capeggiata da Xi Jinping. L’inclusione dei due obiettivi centenari nello Statuto del PCC equivale all’assunzione di un impegno solenne per la leadership al potere, e il raggiungimento degli stessi una sorta di condicio sine qua non per continuare a garantirsi la legittimazione a governare. Tanto più che in svariate occasioni, Xi Jinping ha descritto i due obiettivi come tappe concrete nella realizzazione del “sogno del ringiovanimento della nazione cinese”, diventato il concetto cardine della visione politica del leader.

A questo punto può essere interessante soffermarsi brevemente ad analizzare ciò che è stato fatto finora in vista della realizzazione di questi obiettivi, con riferimento soprattutto al primo dei due – considerata la sua imminente scadenza – e ciò che rimane da fare, al fine di valutare in che modo la crisi legata alla pandemia globale possa averne compromesso in qualche modo il raggiungimento.

In termini di alleviamento della povertà, il governo di Pechino vanta il record di aver ridotto la percentuale di popolazione rurale che vive sotto la soglia di povertà, così come definita dalla Banca mondiale, dal 97,5% del 1978 all’1,7% del 2018 (da 770 milioni a 16,6 milioni), una cifra che rappresenta circa il 70% dello sradicamento della povertà globale nel stesso lasso di tempo. In particolare, dall’arrivo al potere di Xi Jinping l’incidenza della povertà assoluta in Cina è scesa dal 10,2% all’1,7% del 2018, in calo di quasi 9 punti percentuali. Nel 2019 la Cina ha completato l’obiettivo di emancipare ulteriori 10 milioni di persone dallo stato di povertà assoluta, come previsto nel piano triennale pubblicato nel 2018, volto a sradicare completamente il fenomeno entro il 2020.

Questi dati fanno della Cina popolare il Paese con il maggior numero di persone emancipatesi dalla povertà al mondo e il primo Paese in assoluto ad aver completato gli Obiettivi di sviluppo del Millennio delle Nazioni Unite; in questo senso, le idee e le pratiche cinesi sostenute da Pechino, come la riduzione della povertà tramite l’industria e la riduzione mirata della povertà (jingzhun fupin) hanno fornito un riferimento per i Paesi in via di sviluppo e sono state ampiamente riconosciute dalla comunità internazionale. Al riguardo Jorge Chediek, direttore dell’Ufficio delle Nazioni Unite per la cooperazione Sud-Sud, ha definito l’emancipazione dalla povertà di centinaia di milioni di cinesi un’impresa eroica nella storia dello sviluppo dell’umanità, che ha fornito un modello di riferimento per lo sviluppo mondiale.

Per quanto riguarda il Paese nel suo insieme, dal 1979 al 2018, l’economia cinese è cresciuta a una media del 9,4% all’anno, segnando un tasso di sviluppo molto superiore rispetto a una media mondiale del 2,9%. Anche il reddito pro capite ha conosciuto una crescita senza eguali, passando da soli 160 dollari nel 1978 a oltre 8.800 dollari alla fine del 2018, mentre in termini di potere d’acquisto, il cittadino cinese medio ha oggi a disposizione circa 16.000 dollari.

Detto ciò, vi sono ancora alcune sfide importanti da affrontare prima che la Cina possa effettivamente realizzare i suoi obiettivi. La povertà, per quanto drasticamente ridotta, continua a rappresentare in alcune zone del Paese un problema che richiede ulteriori sforzi. Sulla base delle esperienze di altri Paesi, infatti, la fase più difficile dello sradicamento della povertà è costituita generalmente quando il numero di persone che vivono in povertà rappresenta meno del 10% della popolazione complessiva. In aggiunta vi sono alcune sfide esterne, rappresentate dai cambiamenti climatici e dalle problematiche rappresentate dall’economia globale in generale, che sono al centro delle interazioni di Pechino sia con le organizzazioni internazionali, in primis le Nazioni Unite e l’ASEAN, sia nell’ambito delle sue relazioni bilaterali. A queste sfide si è aggiunta di recente quella legata all’emergenza e alla diffusione del Coronavirus nel mondo – una delle crisi peggiori di sempre per la Cina, oltre che dal punto di vista economico e di politica interna, anche dal punto di vista geopolitico – che ha già avuto modo di manifestare tutta la sua gravità per la Cina e per il sistema globale in generale, e che avrà innegabilmente dei pesanti strascichi nel lungo periodo, sotto molteplici punti di vista. Nell’immediato, il rallentamento economico determinato dalla crisi pandemica, getta un’ombra sulla prospettiva del raggiungimento del primo dei due obiettivi centenari, che è praticamente dietro l’angolo. In modo abbastanza inusuale, nessuna previsione di crescita del PIL è stata annunciata per il 2020, in occasione della riunione annuale dell’Assemblea nazionale del popolo, lo scorso mese di maggio, a suggerire la gravità della situazione, il difficile cammino verso la ripresa e le incognite sul futuro del “sogno cinese”.

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