Il 2020 è destinato a rimanere una data spartiacque per Pechino, come tante ce ne sono state nei 70 anni di storia della RPC. In termini di danni all’immagine del Paese, le conseguenze della pandemia determinata dalla crisi del Covid-19 possono essere paragonate al 1989, quando, a seguito dei fatti di piazza Tienanmen, la Cina subì una grave condanna e un isolamento internazionali che rischiavano di mettere in discussione il progetto di modernizzazione avviato da Deng Xiaoping nel dicembre del 1978, in occasione del III plenum dell’XI Comitato Centrale. Internamente il PCC conobbe all’epoca una pericolosa crisi di legittimazione, che costrinse i governanti comunisti a darsi una nuova missione per garantire la sopravvivenza del Partito. E questa nuova missione venne trovata nella prosecuzione del processo di modernizzazione e di crescita economica. Oggi sappiamo che la Cina ha avuto ragione: paradossalmente il miracolo economico cinese è ‘figlio di Tienanmen’; così come sappiamo che la condanna e l’isolamento internazionali sono stati di breve durata. Ciò detto, Pechino ha lavorato a lungo per ripulire la propria immagine, macchiata a Tienanmen, e guadagnarsi la nomea di ‘potenza responsabile’ desiderosa di crescere in maniera ‘pacifica’ e di dare il proprio contributo nella gestione della governance internazionale, oltre che per allontanare lo spettro della ‘minaccia cinese’ che ha iniziato ad aleggiare nei primi anni Novanta, complice una crescita economica senza eguali.

Oggi come allora, la Cina rischia di mettere in discussione molti dei traguardi raggiunti negli ultimi anni e che hanno visto il Paese protagonista in molti consessi internazionali, approfittando anche della ritirata statunitense dell’amministrazione di Donald Trump, dietro lo slogan dell’America First. Soprattutto, la Cina del 2020 è tornata a fare paura, al di là del virus, per il suo modus operandi che, per un certo periodo, era assurto a “modello” per alcuni Paesi (secondo diverse denominazioni, da Beijing Consensus a modello Cina/cinese). Di nuovo è il Partito comunista a essere messo in discussione, quello stesso Partito che nel 2021 festeggerà il suo centesimo anniversario, consentendo al Paese di raggiungere il primo dei suoi “obiettivi centenari”, e dunque di realizzare, almeno teoricamente, la prima parte del suo ‘Sogno’.

Sembra passato molto tempo da quando Pechino si compiaceva per i successi raggiunti dal proprio Paese nell’ambito delle relazioni internazionali. Era il 30 settembre 2019 quando il governo centrale pubblicava un libro bianco significativamente intitolato China and the World in the New Era, mentre l’indomani si sarebbero svolti in pompa magna i festeggiamenti per il settantesimo anniversario della nascita della Repubblica popolare cinese. Il libro bianco, basandosi su alcune fonti autorevoli occidentali, elencava tutti i successi raggiunti dalla Cina in vari settori, dall’abbattimento dei tassi di povertà assoluta alla lotta ai cambiamenti climatici, confermando il ruolo chiave svolto dal Paese sulla scena internazionale. I contenuti del libro bianco erano ripresi dal presidente cinese, in occasione del tradizionale discorso di fine anno pronunciato il 31 dicembre – quando, come noto, l’allarme per il nuovo virus era già scattato nel Paese senza che, però, si fossero intraprese delle misure per arginarne la diffusione, nella convinzione che si trattasse di un allarme infondato, da un lato, e che questa sarebbe rimasta probabilmente dentro i confini del Paese, dall’altro. Il focus del discorso di Xi Jinping era sul numero accresciuto di Paesi che avevano allacciato relazioni diplomatiche con Pechino (180) – laddove il numero di Paesi che riconoscevano la Repubblica di Cina, ossia Taiwan, si era ridotto a 15 – e il fatto che la Cina avesse «amici in ogni angolo del pianeta».

La crisi pandemica legata alla diffusione del Covid-19 rischia di compromettere molti di questi traguardi, così come di rimettere in discussione molte di queste relazioni amichevoli, anche quelle più consolidate, come quelle con il continente africano, tanto per citare un caso, per via dei gravi atteggiamenti razzisti di cui sono stati oggetto alcuni immigrati africani nella provincia meridionale di Guangdong. La stampa internazionale ha dato molto risalto a questi episodi, soprattutto in considerazione del fatto che molti governi africani (tra i quali Nigeria, Ghana, Kenya e Uganda) hanno formalmente protestato, per voce dei loro diplomatici accreditati a Pechino e, cosa ben più grave, hanno velatamente minacciato di interrompere o di rinegoziare molti dei contratti stipulati con la RPC, nell’ambito della Belt and Road Initiative, per la cui realizzazione, come è noto, il continente africano riveste una rilevanza cruciale.

Vale la pena ricordare come il razzismo contro gli africani non costituisca una novità per la Cina. Le relazioni tra Cina-Africa sono, infatti, segnate tanto da solidarietà quanto da episodi di razzismo, che vanno dai maltrattamenti da parte della polizia, a evidenti discriminazioni negli ambienti di lavoro – da quelli che escludono l’impiego per gli heiren (letteralmente ‘uomini neri’) a quelli che propongono salari più bassi. Una crisi nelle relazioni che l’appuntamento del FOCAC 2020, svolto in modalità del tutto inedite il 16 giugno, come rivela la stessa titolatura scelta per l’evento – “Extraordinary China-Africa Summit On Solidarity Against COVID-19” –, ha in parte contribuito a far rientrare. Nel suo keynote speech, intitolato “Defeating COVID-19 with Solidarity and Cooperation”, il Presidente cinese ha rimarcato l’impegno del suo Paese a sostenere le precarie finanze del continente – il cui PIL, stando alle stime del Fondo monetario internazionale, subirà una contrazione dell’1,5% – a partire dalla cancellazione del debito per alcuni Paesi, rispetto alla semplice sospensione dei pagamenti fino a dicembre stabilita in seno al G20.

L’intenzione di Pechino, oltre che allontanare le accuse di razzismo, è senza dubbio di consolidare il ruolo di partner privilegiato dei Paesi africani in via di sviluppo e di portavoce delle loro istanze di fronte all’Occidente. “La Cina spera che la comunità internazionale, in particolare i Paesi sviluppati e le istituzioni finanziarie multilaterali, agiscano con più forza per il taglio e la sospensione del debito dell’Africa”. Vale la pena sottolineare che all’appuntamento in videoconferenza erano presenti, in qualità di “special guests”, anche il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, e il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, accusato dagli Stati Uniti di essere troppo conciliante con la Cina di Xi e di dirigere un’organizzazione favorevole a Pechino, per i continui elogi portati al Paese comunista per la lotta alla pandemia.

Viceversa, la crisi ha consentito a Pechino di migliorare e consolidare i rapporti con alcuni Paesi, anche in maniera inaspettata, agli occhi dei più. Un caso per tutti è certamente quello che riguarda il Giappone, che per primo è andato in soccorso a Pechino attraverso una serie di azioni, talvolta anche simboliche, inaugurando quella che è stata poi ribattezza la ‘mask diplomacy’. In questo caso è importante sottolineare come le relazioni tra i due Paesi avessero conosciuto un certo miglioramento negli ultimi anni, come diretta conseguenza delle mosse dell’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump, che avevano finito per colpire anche il ‘fedele’ alleato asiatico. Non è un caso che il presidente Xi Jinping fosse atteso a Tokyo per una visita di Stato proprio in primavera, un invito ricevuto personalmente da Shinzo Abe in occasione di un incontro bilaterale a margine del vertice G-20 di Osaka, nel giugno 2019. Quella di Osaka era stata la prima visita di un presidente cinese in Giappone in nove anni e si era rivelata un’occasione importante per approfondire la relazione personale tra i due leader.

Immagine: Da sinistra: Shinzo Abe  e Xi Jinping (4 settembre 2016). Crediti:  plavevski / Shutterstock.com

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