Tutto è nato a seguito delle elezioni parlamentari tenutesi a inizio novembre scorso, che hanno visto trionfare la Lega nazionale per la democrazia (NLD, National League for Democracy), il partito di Aung San Suu Kyi. La politica ‒ premio Nobel per la Pace 1991, assegnatole mentre era agli arresti per il suo attivismo antiregime ‒ ha visto incrementare i seggi attribuiti al suo partito e stabilizzare in entrambe le Camere la sua maggioranza assoluta. Alla fine di gennaio 2021, però, il capo delle forze armate birmane, generale Min Aung Hlaing, a nome del partito dell’Unione della solidarietà e dello sviluppo (USDP, Union Solidarity and Development Party), vicinissimo all’esercito, nell’incredulità generale a causa dei pochissimi seggi conquistati dalla formazione filomiliare in Parlamento, ha contestato l’esito del voto e chiesto un riconteggio che, nel migliore dei casi, avrebbe permesso all’USDP, di guadagnare qualche scranno, non certo la maggioranza, minacciando un intervento dell’esercito per risolvere la crisi politica. Il contenzioso, con una commissione elettorale assolutamente netta nel ribadire la validità del voto, è sfociato il 1° febbraio in un vero e proprio colpo di Stato con conseguente arresto del consigliere di Stato e ministro degli Esteri Aung San Suu Kyi e dello stesso presidente Win Myint.
Fin qui i fatti che hanno generato sconcerto e preoccupazione tra gli osservatori di mezzo mondo. Pochi immaginavano un precipitare degli eventi verso la violenza brutale a velocità siderale. Fino a oggi si contano oltre seicento morti – una cinquantina di bambini ‒ e migliaia di feriti. Arresti sommari (anche di minorenni), minacce e caccia ai manifestanti si susseguono di giorno in giorno mentre la popolazione civile, atterrita, denuncia che ‘si spara su ogni cosa in movimento, anche i cani’. Internet è stato interrotto o comunque fortemente limitato, la TV di Stato trasmette immagini di repertorio di gloriose azioni dell’esercito mentre nelle strade permane una situazione di terrore. Nel frattempo la Cina, che si è opposta a ogni intervento internazionale in Myanmar, ha bloccato, con il suo veto, una dichiarazione – per quanto possa avere valore effettivo – del Consiglio di sicurezza di condanna del coup, ma ha almeno sostenuto la richiesta di liberazione di Suu Kyi e un rapido ritorno alla normalità democratica.
Dietro il momento drammatico che il Paese asiatico sta vivendo c’è probabilmente la refrattarietà dell’esercito, da sempre vero protagonista politico, a far transitare definitivamente l’ex Birmania verso la democrazia. Prove eclatanti sono il fatto che la Costituzione emanata nel 2008 sancisca chiaramente che un quarto dei seggi nel Parlamento, al di là di come vadano le elezioni, debbano essere rigidamente assegnati a militari, così come ministeri pesantissimi tra cui quello della Difesa e degli Interni. Gli ufficiali, inoltre, hanno potere di veto in qualsivoglia tentativo futuro di emendare la Costituzione. Rispetto alla figura di Aung San Suu Kyi, poi, in salda posizione di preminenza nei consensi nonostante un calo di popolarità (soprattutto esterna) dovuto alla sua durissima strategia assunta verso la minoranza musulmana dei Rohingya – costatale la condanna dell’ONU che l’ha definita ‘pulizia etnica’ spingendosi a utilizzare il termine ‘genocidio’ – gli ufficiali si sono assicurati la sua impossibilità ad assurgere a ruoli apicali per una norma dal sapore di beffa: nessun politico birmano con figli dalla cittadinanza diversa può accedere a presidenza o vicepresidenza (i due figli della leader, avuti dal matrimonio con Michael Harris, sono inglesi).
Quando il popolo si è espresso in massa, quindi, per una definitiva o progressiva smilitarizzazione del potere politico in Myanmar, affidando i propri consensi verso leader civili, il cerchio magico militare al comando da sempre ha reagito alla sua maniera. E gli schemi, come in una partita impazzita, sembrano totalmente saltati: l’evidenza maggiore, probabilmente, è il trattamento riservato ai bambini che ha fatto scattare l’allarme dell’ONU: «Chiediamo con forza al Tatmadaw (l’esercito) di fermare le violenze diffuse sui minori in ogni manifestazione – hanno dichiarato Virginia Gamba, rappresentante speciale del segretario generale per i Bambini e i Conflitti armati, e Najat Maalla M’jid, rappresentante speciale del segretario generale sulla Violenza contro bambini, lo scorso 1° aprile –; più si prolungherà l’attuale situazione di violenza continuata, maggiore sarà lo stato di trauma e stress tossico nei bambini, e ciò produrrà un impatto per il resto delle loro esistenze a livello mentale e fisico».
Il quadro, in poco più di due mesi, è così sprofondato nel dramma, con un’accelerazione incredibile che ha condotto a un cambio netto nel contesto politico del Paese. Al potere, ora, è salito il capo delle forze armate Min Aung Hlaing, un personaggio dal curriculum inquietante che ha sempre lavorato dietro le quinte di una nazione che, con grande fatica, provava a imboccare la via della democrazia. È stato condannato dalla comunità internazionale e ha ricevuto sanzioni per il suo ruolo preminente nella repressione dei gruppi etnici minoritari.
Quello delle minoranze etniche, in particolar modo i Rohingya, è un nodo cruciale che fa da sfondo alla generale instabilità del Myanmar. E qui, ad aggiungere contraddizioni a un quadro già inquietante, entra in gioco la controversa figura di Aung San Suu Kyi.
La leader birmana, fino al 1° febbraio consigliere di Stato e ministro degli Esteri, ha dovuto difendersi dalle imputazioni di genocidio addirittura davanti ai giudici del Tribunale internazionale dell’Aia così come dalle accuse di non aver fatto nulla per prevenire le violenze sistematiche nei confronti di questa minoranza di musulmani, nell’ultima conta del 2017 stimati in più di un milione nel Paese, da sempre vittime di soprusi. L’ultimo, in ordine di tempo, l’esclusione dal voto dello scorso novembre (così come per tutte le altre minoranze, in totale circa 2 milioni di persone) che ha fatto giudicare dall’inviato speciale dell’ONU per i diritti umani «non libera» la tornata. Inoltre, ad almeno 6 candidati Rohingya è stata negata la partecipazione alla corsa elettorale.
La popolarità di Suu Kyi è in gran parte derivante dalla sua appartenenza alla principale etnia del Paese, quella Bamar, interamente di fede buddhista. La religione, in un Paese tra i più buddhisti al mondo, e il monachesimo millenario, giocano un ruolo preponderante. I monaci, che si sono schierati in massa a fianco di Aung San Suu Kyi in passato, si dividono al momento tra lealisti e fautori della rivolta. Questi ultimi, in maggioranza, hanno espresso il loro dissenso scendendo in piazza accanto ai manifestanti.
Schiacciato dal peso di un durissimo colpo di Stato, già alla ribalta delle cronache per una gestione disastrosa delle minoranze etniche, colpito da una povertà endemica che la pone agli ultimi posti dello Human Development Index, il Myanmar vive l’ennesimo momento cruciale della sua storia. La sua leader, a cui sicuramente la nuova situazione restituisce sul piano internazionale, almeno in parte, quel ruolo di icona di giustizia che la questione Rohingya ha oscurato, dal carcere ha margini risicatissimi di azione. Toccherà alla comunità internazionale mantenere i riflettori accesi per un ritorno se non alla normalità almeno alla decenza.