Da qualche mese a questa parte la vasta galassia della destra europea “illiberale”, “sovranista”, “nazionalista” o, più genericamente, estrema pare decisamente in subbuglio: gli incontri tra leader si rincorrono, con Viktor Orbán che passa da una cena con Matteo Salvini a una conferenza stampa con il leader di Vox Santiago Abascal, mentre il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki, insieme alla presidente di Fratelli d’Italia, prova a disegnare il futuro dell’ECR, il partito europeo dei Conservatori e Riformisti di cui ‒ fino a un anno fa ‒ facevano parte anche i Tories britannici.

L’ultima iniziativa in ordine di tempo è la firma congiunta di un manifesto intitolato Unione dei patrioti europei da parte dei leader di Fidesz, Diritto e Giustizia, Lega, Fratelli d’Italia, Vox insieme ad altre dieci sigle minori ma con idee più o meno affini. Il documento, non troppo approfondito, spolvera il classico armamentario retorico delle destre europee come lo scontro con «l’ideologia burocratica e tecnocratica di Bruxelles che impone norme in tutti gli ambiti della vita quotidiana» ma, sorprendentemente, glissa su alcune grandi battaglie identitarie a partire dall’abbandono dell’euro.

Insomma, leggendo il documento parrebbe quasi che Orbán e soci abbiano compiuto un salto ideologico abbastanza significativo, abbandonando una volta per tutte l’antieuropeismo per un più pragmatico approccio interno (e integrato) alle istituzioni e ai meccanismi dell’Unione. In realtà le iniziative di questo periodo tradiscono un grande disagio e, soprattutto, un problema non indifferente di posizionamento politico.

Dopo aver scommesso per un paio di decenni buoni su una possibile implosione (o esplosione) del moloch bruxellese, prima con la crisi dell’euro, poi con i migranti e ‒ infine ‒ con la pandemia, le forze della destra radicale si sono trovate davanti un sistema che, per quanto pieno di contraddizioni e difficoltà, ha saputo svelare una certa resilienza. I tempi in cui l’approccio ultrarigorista della Commissione europea ha dato fiato alle campagne sovraniste sono passati, lasciando posto a Next Generation EU, a un primo abbozzo di solidarietà, a una Unione capace di rispondere alle paure dei cittadini senza cavalcarle. Certo, probabilmente nulla di tutto questo sarebbe accaduto senza la tempesta del Covid, tuttavia a volte il vento della storia cambia in maniera inattesa, con eventi del tutto straordinari.

Il virus ha spazzato via la presidenza di Donald Trump, privando i sovranisti europei del loro alleato più naturale, mostrato al mondo l’inettitudine del governo Bolsonaro in Brasile e costretto gli altri alfieri dell’autoritarismo ‒ a partire da Vladimir Putin ‒ a un brusco cambio di priorità, ora centrate sulle dinamiche sanitarie domestiche. In questo quadro i partiti di estrema destra europei si sono trovati spiazzati, soprattutto in Italia, unico Paese ad avere due movimenti ampiamente sovrapponibili in termini ideologici, quasi alla pari nei sondaggi, alleati ma ‒ al momento ‒ divisi tra sostegno al governo Draghi e opposizione.

Come se non bastasse pure la spinta propulsiva di chi, come Orbán o i Kaczyński, è arrivato al governo rischia di indebolirsi molto: in Ungheria la grande alleanza di tutte le opposizioni (Jobbik compreso) è data nei sondaggi a pochi punti da Fidesz, mentre in Polonia le forze alternative al PiS (Prawo i Sprawiedliwość, Legge e Giustizia) stanno provando a riorganizzarsi attorno alla figura dell’ex presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. Nell’Europa occidentale, esaurita anzitempo l’esperienza del governo gialloverde in Italia, rimane solo la sfida di Marine Le Pen che, però, date le particolarità del sistema elettorale francese, parte sfavorita rispetto sia a Macron che a un eventuale sfidante espresso dalla destra gollista (senza contare che le recentissime elezioni regionali sono state piuttosto avare di successi per il Rassemblement National).

Infine, nelle varie articolazioni di quest’area politica, inizia a farsi strada una linea di faglia ideologica e tattica cruciale: da un lato ci sono forze, come la Lega che appaiono ‒ per ora ‒ interessate a un percorso di normalizzazione istituzionale, dall’altro Marine Le Pen e Alternative für Deutschland ancora rifiutano di inserirsi nella dialettica politica tradizionale. In mezzo a queste due posizioni si trovano i Paesi di Visegrád che, dopo essere stati per lunghi anni coperti politicamente e tutelati da un Partito popolare europeo che in nome del pragmatismo politico (e delle enormi interconnessioni economiche tra Germania, Polonia e Ungheria) ha preferito chiudere entrambi gli occhi sulla progressiva deriva autoritaria di Varsavia e Budapest.

I prossimi mesi saranno cruciali per capire dove porterà questo rimescolamento, l’Unione Europea, per bocca della presidente von der Leyen pare pronta ‒ dopo anni ‒ a sanzionare i Paesi che non rispettano i diritti umani, mentre non è detto che un buon dividendo elettorale di Marine Le Pen in Francia non finisca per attirare di nuovo forze come la Lega verso posizioni più oltranziste.

Quello che accade dalle parti di Visegrád e affini, in ogni caso, non è solo affare delle destre più reazionarie: pure le destre moderate e le sinistre socialdemocratiche si trovano davanti più di una sfida, dopo aver alzato per decenni il blasone “europeista” (qualsiasi cosa significhi) come punto di differenza quasi antropologica rispetto a certe posizioni estremiste, l’esistenza di un fronte neoreazionario capace però di muoversi tra le pieghe delle istituzioni dell’Unione rischia di essere un pericolo molto più insidioso delle urla in aula e del folklore nei comizi.

Immagine: Viktor Orbán tiene una conferenza stampa alla fine dell’Assemblea politica del Partito popolare europeo presso il Parlamento europeo, Bruxelles, Belgio (20 marzo 2019). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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