Da quando, nel lontano 1995, il sistema previdenziale italiano ha iniziato ad abbandonare, con estrema gradualità, la formula di calcolo retributiva – che prevedeva una pensione legata al numero di anni di attività e alle retribuzioni percepite al termine della carriera – per sostituirla con quella contributiva – in cui la prestazione è ancorata al totale dei contributi versati lungo l’intera carriera – la sfiducia dei più giovani verso il futuro che li attende da pensionati è parsa aumentata, come conferma il sentire comune in base al quale “che paghiamo a fare i contributi, tanto non avremo mai la pensione” e “anche se versiamo i contributi, saremo costretti a passare una vecchiaia in povertà, visto che le nostre pensioni saranno da fame”.

Ma quanto è effettivamente motivato questo sentire comune? E cosa occorrerebbe fare per migliorare le attese dei futuri pensionati?

Per rispondere a queste domande, bisogna iniziare dal ricordare le caratteristiche dello schema contributivo, in base al quale verranno interamente calcolate le pensioni di chi ha iniziato a lavorare a partire dal 1996. Pur rimanendo il finanziamento a ripartizione (la spesa annua per pensioni viene cioè finanziata dai contributi versati nello stesso anno dagli attivi), nel contributivo l’importo delle prestazioni dipende dal montante accumulato “figurativamente” (non esistendo un’effettiva accumulazione nella ripartizione) dagli individui – cioè dai contributi versati e dal rendimento “nozionale” che si ottiene su questi contributi (pari al tasso di crescita quinquennale del PIL nominale) – e dai cosiddetti coefficienti di trasformazione. Questi coefficienti, basati sulla vita media attesa all’età del pensionamento, convertono, secondo regole attuariali, il montante in una rendita mensile, in modo che chi si ritirerà più tardi riceverà una prestazione più elevata per tener conto del fatto che la otterrà, in media, per un minor numero di anni.

In ottica “micro” il contributivo può quindi essere ritenuto uno specchio di quello che accade agli individui nel mercato del lavoro nell’intera carriera. Vite lavorative meno fortunate – in termini di frequenti periodi di non lavoro, bassi salari (anche a causa di contratti part-time involontari) e aliquote di contribuzione ridotte (nel contributivo, un’aliquota minore, come per chi lavorava con i voucher, o i co.co.co fino agli anni più recenti, implica minori versamenti) – si rifletteranno in una pensione di importo proporzionalmente più basso rispetto a chi, al contrario, non dovesse incontrare difficoltà occupazionali, versasse sempre aliquote piene (come i dipendenti) e percepisse retribuzioni di livello adeguato. In aggiunta, si consideri che, al di là dell’assegno sociale, che viene concesso a tutti gli anziani privi di altri mezzi (anche a chi non ha mai lavorato), nel contributivo non esiste l’integrazione al minimo, che, nel precedente sistema, costituiva un pavimento per le prestazioni pensionistiche erogate agli ex lavoratori.

In ottica “macro”, le tecnicalità del contributivo fanno sì che, una volta che esso sarà interamente in vigore per la totalità dei pensionati, il livello della spesa per pensioni diventi automaticamente sostenibile per il bilancio pubblico, pur a fronte di shock macroeconomici e demografici, che causerebbero riduzioni delle prestazioni individuali, senza inficiare il bilancio pubblico.

Il timore del “non avremo mai la pensione” appare, allora, del tutto fuori luogo, dato che “per definizione” il bilancio previdenziale sarà sempre tendenzialmente in equilibrio e, salvo motivi indipendenti dal sistema pensionistico, ci saranno sempre le risorse per pagare le pensioni. L’attenzione va, dunque, spostata dal piano della sostenibilità finanziaria a quello dell’adeguatezza delle prestazioni erogate, ovvero al tenore di vita di cui potranno godere i futuri pensionati.

Dal punto di vista individuale la pensione dipenderà dal tasso di crescita del PIL, dall’età in cui ci si ritira e dall’interazione di tre fattori: aliquote di contribuzione, periodi lavorati e retribuzioni (su cui incidono i periodi di lavoro part-time). L’aumento dell’età pensionabile – laddove si accompagni a un’effettiva crescita della durata della vita attiva – consente di accrescere il montante e, attraverso i meccanismi attuariali, l’importo della pensione. Alcune simulazioni mostrano che con carriere “piene” e lunghe nel contributivo il rapporto fra pensione e ultima retribuzione (il cosiddetto tasso di sostituzione) sarebbe simile a quello del precedente schema retributivo e, pertanto, non sarebbe necessaria un’integrazione da parte dei fondi pensione privati. Bisogna dunque smentire anche il luogo comune in base al quale “tutti avremo pensioni da fame”.

Ma allora nessun problema? Tutt’altro. Il problema esiste, infatti, e grave, per quella quota di persone – che al momento non si sa se saranno maggioritarie o minoritarie, ma che, osservati nella prima fase della loro carriera, rappresentano una quota elevata di chi ha iniziato a lavorare dopo il 1995 – che dovessero trascorrere una carriera lavorativa svantaggiata lungo le dimensioni sopracitate e, pertanto, rischierebbero di ritrovarsi con un montante accumulato particolarmente esiguo anche dopo decenni di vita attiva. Per questi lavoratori, peraltro, la previdenza privata non può rappresentare una risposta, dato che, come evidente dai dati sulle adesioni dei più giovani ai fondi pensione, appare del tutto implausibile che un working poor risparmi parte della propria limitata retribuzione per garantirsi un maggior consumo da anziano.

Va però chiarito che i rischi di pensioni inadeguate non dipendono dal contributivo in sé, ma dalla coesistenza delle rigide regole attuariali con bassi tassi di crescita del PIL e, soprattutto, da un mercato del lavoro incapace di garantire a troppi lavoratori carriere soddisfacenti. In altri termini, il sistema contributivo, con la sua logica attuariale e le sue tecnicalità, rappresenta una buona cornice per definire le regole di fondo del sistema previdenziale. La sua applicazione non implica però che, in modo trasparente – come previsto nello stesso verbale d’intesa di settembre 2016 fra Governo e sindacati che prefigurava una fase 2 della riforma pensioni ancora tutta da definire –, non ci si possa distanziare parzialmente dalle sue regole rigide per far fronte ad alcune situazioni, particolarmente inique e inaccettabili, che dovessero comportare prestazioni inadeguate per alcune tipologie di lavoratori sfortunati lungo l’intera carriera.

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