L’11 marzo 1924 nasceva a Venezia Franco Basaglia. A 92 anni di distanza, l’anniversario della sua nascita è l’occasione per sfogliare “L’Istituzione inventata. Almanacco Trieste 1971-2000”, curato da Franco Rotelli. Rotelli, successore di Basaglia alla direzione del manicomio di Trieste e poi direttore generale dell’Azienda sanitaria della città friulana, ripercorre in questo imponente volume, a volte un po’ troppo oscuro per il lettore medio e con un po’ troppi refusi, le intense vicende che portarono alla chiusura dell’ospedale psichiatrico triestino. In realtà il lavoro di Rotelli nasce dall’esigenza di testimoniare la complessità dell’esperienza di Trieste, non tanto concentrandosi sul periodo della rivoluzione basagliana (di cui già esiste una ricca storiografia) quanto ricordando ciò che è successo dopo la promulgazione nel 1978 della legge 180, quando c’è stato da “inventare” l’istituzione, dopo averla, giustamente, “negata”. Il succedersi di fatti, testimonianze, citazioni di Basaglia e cronache, suscita un turbine di emozioni e di riflessioni. La storia che ci viene raccontata da Rotelli è la storia della lotta contro ciò che sembrava inattaccabile e che da secoli distruggeva identità e dignità umana. E fu anche e soprattutto una storia di coraggio, di quell’immenso coraggio che ti porta innanzitutto a mettere in discussione te stesso, il tuo potere, il potere del tecnico. È stata certo una liberazione dei matti ma anche e soprattutto, come ricordavano Basaglia e Sartre, liberazione dell’intellettuale e presa di coscienza del suo essere ingranaggio del sistema, del suo essere complice della negazione dell’uomo. Nelle pagine dell’almanacco troviamo la violenza psichiatrica, l’oppressione, la contenzione fisica, le reti, ma anche l’intenso lavoro, la passione, il clima febbrile e i conflitti di chi si sta rendendo conto, in quel momento e in quel posto che, pur tra mille resistenze, si sta facendo qualcosa d’importante. Si sta cambiando il mondo dalla periferia del mondo. Si sta per diventare un modello destinato a essere ammirato e a insegnare la sconfitta dello stigma e una nuova psichiatria a giovani medici brasiliani, argentini, greci. Trieste, terra di confine da cui si superano altri confini, è il teatro dove si distruggono le istituzioni totali e vi sostituisce rispetto e produzione di cultura e creatività, diviene il luogo in cui concetti troppo spesso astratti si concretizzano in lotta sul campo: partecipazione, democrazia, diritti, cittadinanza, inclusione, smettono di essere involucri vuoti. Rotelli rivendica giustamente il merito che quella parola, inclusione, fa parte oggi delle agende di molti governi e di organismi internazionali, ma ci ricorda che allora tutto doveva essere conquistato e lo fu a caro prezzo, passando per infamie, processi, momenti di tensione. E la psichiatria è stata soltanto il punto di partenza per una più generale discussione e organizzazione del modello sanitario triestino, l’inizio di una de-istituzionalizzazione e di de-ospedalizzazione che lentamente sono andate avanti, seguendo un concetto di territorialità, di cittadinanza attiva grazie all’attività di una molteplicità di soggetti diversi: medici, operatori sociali, associazioni culturali, cooperative, anche di ex internati. Se la battaglia è stata vinta, certamente la guerra è ancora lunga.