Nel marzo del 1996 vede la luce la legge 109, che introduce il riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati alle mafie e rende finalmente la società civile protagonista attraverso la possibilità di riappropriarsi di spazi criminali. Nel tempo ci sono stati vari interventi, con l’istituzione dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata del 2010 e con le modifiche al codice delle leggi antimafia dal 2011 per la tutela del lavoro nelle aziende sequestrate e confiscate. Con la crescita del quadro legislativo le occasioni di interazione tra soggetti pubblici, in particolare gli enti locali destinatari dei beni e le organizzazioni del Terzo settore come associazioni e cooperative sociali, si sono sviluppate in tutto il Paese. Un percorso virtuoso che le cooperative sociali concessionarie di beni confiscati hanno immaginato, a partire dall’individuazione delle organizzazioni ed istituzioni con le quali costruire tavoli per co-progettare e co-gestire i beni in sintonia con i veri bisogni della comunità. A tal proposito, scriveva già Jeremy Rifkin in La fine del lavoro nel 1995, che «nel prossimo secolo, le organizzazioni del terzo settore si attribuiranno la funzione di fornire una quantità sempre più ampia di servizi di base». E in una società che punta a incivilire l’economia, è necessario implementare l’autonomia sociale del Terzo settore in quanto portatore di legami sociali, spesso inespressi da  Stato e mercato.  Un welfare comunitario, che si propone di consolidare il ruolo della comunità e del territorio, nel quale lo Stato, i Comuni, il Terzo settore, i singoli cittadini si sentano coinvolti, facendosi reciprocamente carico dei bisogni e promuovendo iniziative per prevenire derive che conducono a marginalità sociale.

Più volte il presidente della Fondazione con il Sud, Carlo Borgomeo, ci ha ricordato come tante sono le esperienze di cui è protagonista il Terzo settore che ci dimostrano che questa è la strada da percorrere per costruire percorsi duraturi di sviluppo, anche economico. È la comunità che lavora insieme puntando sul capitale sociale, sui beni comuni, sulla cultura, sulla legalità, sui giovani, quella che può crescere e costruire un futuro migliore per sé e per il proprio territorio. Ciò significherebbe, per le zone del meridione, anche spezzare la cinghia di trasmissione del fenomeno del lavoro nero. I beni confiscati rappresentano lo spazio sostanziale e simbolico per la possibilità di sviluppo del territorio libero anche attraverso la creazione di occasioni di vita per le comunità. ‘Riutilizzare socialmente’ significa valorizzare il capitale sociale presente nel territorio non solo sul versante economico ma in particolar modo legandolo a processi generativi sul piano della prevenzione educazionale, barriera efficace dinanzi alla subcultura mafiogena.

I beni confiscati non sono semplici ‘immobili’, anzi devono esprimere la catarsi del movimento. Sono stati le concrete rappresentazioni narrative del potere mafioso, servite per dominare interi territori. Renderli ‘vivi’ segnala alla comunità il cambiamento e il rigetto reale delle mafie fuori dal proprio spazio di azione. E non è mai semplice, in quanto le sacche di resistenza sono difficili da piegare per la presenza costante di zone d’ombra dove prospera la passività di certa politica che non si libera dalla pervasività della criminalità organizzata sui territori. La dimensione ancora forte delle mafie, la loro capacità di inquinare e a volte dirigere i processi costitutivi del tessuto economico e sociale attraverso il condizionamento della vita politico-amministrativa rendono indispensabile lo strumento del riutilizzo sociale e istituzionale dei beni confiscati in quanto portatori di una valenza strategica, da aprire però ad altre esperienze, quali quelle della inclusione progettuale dell’utilizzo sociale dei beni confiscati nei Piani di zona degli ambiti socio-sanitari.

Ma quali le criticità più urgenti? Mauro Baldascino di Libera ritiene che la legislazione dovrebbe prevedere per l’Agenzia nazionale una specifica finalità di promozione e sostegno all’economia sociale realizzata dal Terzo settore attraverso i beni confiscati, immobili ed aziende. In particolare, per i beni aziendali va ripensato l’utilizzo, con interventi per la riconversione di tali aziende in imprese sociali e cooperative, stimolandone l’integrazione con le cooperative sociali, che già operano sui beni confiscati, attraverso consorzi o contratti di rete.

Bisogna anche amaramente osservare come la progettazione copartecipata tra Comuni e espressioni del Terzo settore è spesso lasciata alla buona volontà dei singoli amministratori. Manca un vero supporto agli enti locali assegnatari. È necessario incrementare lo sviluppo dei sistemi di monitoraggio che possano supportare il processo di valutazione dell’efficacia delle assegnazioni. Così come va implementato un sistema di divulgazione e trasparenza delle informazioni che possa favorire il riuso e la valorizzazione dei beni attraverso anche il prendere in considerazione in futuro, i patrimoni illeciti derivanti da reati di corruzione pubblica. Il pericolo concreto è quello di perdere occasioni per i territori, pensando che il riutilizzo sociale si definisca solo in ristrutturazioni di immobili spesso in condizioni pessime. Ma per dare subito un segnale di discontinuità basterebbe una diffusione maggiore delle assegnazioni provvisorie dei beni. Certo non basta finanziare la ‘ristrutturazione’ del bene confiscato, ovviamente indispensabile per l’utilizzo, ma è fondamentale potenziare la socialità intrinseca della stessa idea di bene.

Immagine: Together defend the community, 1976, di John Pitman Weber per il Chicago Mural Group della Community Arts Foundation, Chicago, Stati Uniti. Crediti: Terence Faircloth [Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-NC-ND 2.0)], attraverso www.flickr.com

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