La nazionale della Catalogna che ancora non c'è tornerà in campo il prossimo 26 dicembre. In quale stadio ancora non si sa, perché la notizia è freschissima e la macchina organizzativa è appena partita, ma l'avversario è lo stesso di un anno fa e sarà un derby separatista: Catalogna contro Paesi Baschi, Catalunya contro Euskal, per dirla nelle lingue giuste del credo indipendentista. Non è un caso che la federcalcio catalana, la Fcf, abbia comunicato il nome dell'avversario nella settimana successiva al voto che ha sancito la vittoria del presidente Artur Mas e dell'alleanza secessionista Junts pel si, che ha conquistato la maggioranza dei seggi ma non quella assoluta dei voti, fermandosi ad un 47,8% che non frena certo la spinta separatista ma genera meno entusiasmo rispetto a quanto, il 9 novembre di un anno fa, due milioni di catalani si recarono alle urne per il referendum informale sull'indipendenza e che ha recentemente causato a Mas l'accusa di “disobbedienza civile”. Non è un caso, perché di nuovo, a dicembre, la partita tra due nazionali simboliche riaccanderà i riflettori sul percorso secessionista che Mas ha indicato, nella sua road map, in diciotto mesi, considerando anche che il 20 dicembre la Spagna voterà il successore di Rajoy.

Inevitabile che lo sport venga messo in mezzo, e in questo senso la presenza di una nazionale catalana, ovviamente non riconosciuta (mentre la Fcf è formalmente un organismo regionale della Rfef, la federazione calcistica spagnola), non lascia indifferenti gli appassionati, anche perché rispondono alle convocazioni i giocatori di mezzo Barcellona – da Piqué a Busquets passando per Jordi Alba e Victor Sanchez – e pochi meno dell'Espanyol, più vari ed eventuali sparsi per l'Europa, come Fabregas o l'ex romanista Bojan. Molti dei quali, nell'ufficialità del pallone, sono effettivamente nazionali spagnoli che hanno contribuito ai recenti trionfi internazionali delle Furie Rosse, ma con origini e cuore catalano.

La nazionale esiste dal 1904 e, da allora, ha giocato 206 partite amichevoli, in maniera inevitabilmente incostante, con uno stop di 14 anni tra il 1976 e il 1990 e il ritorno in auge dagli anni Novanta ad oggi, da quando insomma era stata presa la decisione di disputare, a dicembre di ogni anno, una sfida per riproporre le istanze indipendentiste: Cile, Brasile, Argentina e Colombia, fra gli avversari, oltre appunto ai Paesi Baschi, sfidanti delle partite politicamente più immaginifiche. Una all'anno, massimo due, ma che facciano parlare, lontane anni luce dal patetico folklore della coppa del mondo Viva, quella degli Stati non riconosciuti alla quale, per dire, presero parte anche la selezione della Padania e e quella del Regno delle Due Sicilie, dilettantismo puro insomma. Non per la Catalogna, però, che questa storia la prende maledettamente sul serio.

Anche per questo, dal momento che in fondo lo sport è fare politica con altri mezzi, nei giorni che hanno preceduto le elezioni per il parlamento catalano, l'argomento calcistico è stato più volte tirato in ballo, non con la nazionale ma, al contrario, attraverso la fama planetaria del club che più di tutti rappresenta la Catalogna: il Barcellona. Javier Tebas, presidente della lega professionisti, lo scorso 20 settembre aveva affidato a Twitter una sentenza lapidaria e inequivocabilmente ostile. «Se la Spagna si spacca, si spacca la Liga», paventando l'ipotesi di secessione calcistica tramite l'espulsione dei club catalani affiliati alla Rfef. L'obiettivo? Spaventare i milioni di tifosi blaugrana, perché il calcio è la cosa più importante tra quelle che contano meno. Il Barça, la cui immagine proiettata è fortemente catalana, tramite il presidente Bartomeu, alla vigilia del voto, aveva proclamato a Marca la neutralità del club (un pilatesco e politicissimo «non facciamo campagna elettorale»), ma l'obiettivo di Tebas era però soprattutto Pep Guardiola, sostenitore di Mas al punto da prendere parte agli spot elettorali di Junts pel si, situazione questa che ha indispettito parecchio i vertici calcistici spagnoli. «La gente vota per cambiare la propria situazione economica e personale, non affinché il Barcellona rimanga o meno nella Liga – la secca replica di Pep – poi, magari, di questo si parlerà in un secondo momento. Ma non sarebbe bene né per il club né per il campionato spagnolo».

E in effetti in caso di indipendenza politica non converrebbe a nessuno dei grandi attori modificare lo status quo sportivo, ma basterebbe lasciare tutto com'è nei campionati riconoscendo però la nazionale catalana così come è stata riconosciuta, un paio di anni or sono, quella di Gibilterra. Del resto, a livello finanziario sono i club che dettano legge (il Barcellona, fonte Forbes, è il quarto club calcistico più ricco del mondo, con un fatturato annuo che si avvicina al mezzo miliardo di euro), mentre alle nazionali resta soprattutto il compito della narrazione identitaria di un luogo e della sua gente. Ecco perché il Barcellona, minacce a parte, non rischia nulla: accade già altrove che vi siano squadre che competono in campionati di federazioni diverse. Ad esempio, alla Fa inglese sono affiliate le gallesi Swansea (che gioca in Premier), Cardiff City e Wrexham, il Monaco disputa i campionati francesi – ma a Montecarlo federcalcio e nazionale non esistono – e, nel suo piccolo, anche il San Marino ha da sempre la matricola Figc.

Ma alla Rfef basterebbe guardare in casa propria e ricordarsi di avere già avallato un'affiliazione del genere: sebbene la storia politica del principato sia differente e quella calcistica del club piuttosto trascurabile, l'Fc Andorra partecipa infatti ai campionati spagnoli. E, per non farsi mancare nulla, è iscritto anche alla federazione catalana, nonostante esistano una federcalcio e una nazionale andorrana riconosciute. Con buona pace di Tebas.

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