Negli ultimi anni la letteratura economica e le organizzazioni internazionali stanno dedicando un’attenzione crescente alla disuguaglianza dei redditi e del tenore di vita di individui e famiglie, come testimoniano, fra gli altri, i rapporti periodici pubblicati dall’OCSE e lo straordinario successo del libro di Thomas Piketty Il Capitale nel XXI secolo.

Sul tema delle disuguaglianze in questi giorni è tornata a porre l’attenzione l’OXFAM, una ONG internazionale che da anni dedica i suoi rapporti di ricerca a indagare quanto la distribuzione si stia polarizzando fra un piccolo gruppo di super-ricchi (l’1%) e il resto della popolazione (il 99%). OXFAM valuta sia le disuguaglianze di ricchezza – lo stock di capitale finanziario e immobiliare ereditato o accumulato negli anni dagli individui – che quelle di reddito – il flusso di nuove risorse (da lavoro, capitale, trasferimento pubblico) che affluisce ogni anno agli individui – e segnala come, all’interno della gran parte dei Paesi, ambedue i tipi di disuguaglianza stiano crescendo.

Fra i molti dati presentati, OXFAM, sulla base di sue stime, rileva che nel mondo 8 “Paperoni” posseggono la metà della ricchezza detenuta da tutti gli abitanti del pianeta e, ricordando alcuni dati di Piketty, evidenzia quanto sia risultata disuguale la crescita degli ultimi decenni, contrariamente al luogo comune che ritiene che dell’arricchimento dei più abbienti si avvantaggino tutti attraverso un processo di sgocciolamento: negli Stati Uniti, ad esempio, negli ultimi 30 anni il reddito del 50% meno abbiente è rimasto stagnante, mentre quello dell’1% più ricco è triplicato.

Al di là di eventuali approfondimenti sull’accuratezza dei dati su cui si basano le analisi di OXFAM, le tendenze appaiono indiscutibili e non possono non destare l’attenzione di chiunque abbia a cuore, oltre che l’equità, anche l’efficienza, in relazione alle ricadute sul funzionamento dell’economia di società tanto disuguali e rispetto al modo in cui funzionano mercati che producono una così sperequata divisione dei loro frutti.

Fra le tendenze recenti, quella che più salta agli occhi è la sempre più elevata concentrazione dei redditi nelle mani di un ristrettissimo gruppo di individui. Negli Stati Uniti, ad esempio, la quota di reddito annuo nelle mani dello 0,01% più ricco è cresciuta dallo 0,5% del 1970 al 3,5% negli anni più recenti: il peso in termini di reddito di questi individui è, dunque, 350 volte superiore a quello in termini di popolazione.

Diversamente da quanto accadeva in passato, quando i super-redditi nascevano soprattutto dai redditi da capitale e impresa di cui beneficiavano i grandi ereditieri, in anni più recenti è inoltre sempre più diffuso il fenomeno dei “working super-rich”, individui che guadagnano continuativamente cifre astronomiche grazie al proprio lavoro (top manager, soprattutto nella finanza, e personaggi dello sport e dello show business). A un’attenta analisi, le super-retribuzioni non sembrano potersi attribuire (quantomeno non solamente) a straordinari talenti, ma appaiono legate a "rendite da lavoro" connesse a posizioni di potere – come quelle basate sul potere di pressione sui decisori politici e su forme di capitalismo clientelare – e a mal funzionamenti dei meccanismi di mercato.

Ma come si possono combattere disuguaglianze molteplici, crescenti e, per molti versi, inaccettabili? Un fenomeno complesso come l’accrescersi della disuguaglianza non discende da un singolo fattore (ad esempio, il progresso tecnologico, la globalizzazione o l’indebolimento dell’azione sindacale), bensì da un processo complesso che si esplica mediante una serie di meccanismi che agiscono in interazione producendo un grave effetto cumulativo di accentuazione delle disparità. Di conseguenza, come suggerito dal grande economista, recentemente scomparso, Anthony Atkinson nel suo ultimo libro Disuguaglianza: che cosa si può fare, le politiche per farvi fronte non possono limitarsi a singole misure, per quanto importanti esse siano (ad esempio, il rafforzamento dei salari minimi, la crescita delle opportunità di istruzione per chi nasce in contesti svantaggiati, o l’aumento della progressività fiscale e dei trasferimenti del welfare), ma si inquadrano all’interno di una cornice che racchiude, con pari importanza, sia misure redistributive – che, quindi, compensino, ex post, i risultati dei mercati – sia misure che modifichino profondamente, ex ante, il modo in cui i mercati funzionano e i risultati che essi raggiungono.

In altri termini, oltre che attraverso una necessaria maggior redistribuzione, una strategia di contrasto alla disuguaglianza deve prevedere anche interventi sulle "regole del gioco", ovvero sul modo in cui funzionano i mercati del lavoro e dei capitali, ad esempio definendo misure che rafforzino la posizione dei lavoratori in termini di retribuzione e diritti; che incidano sui rapporti di forza fra sindacati e impresa; che modifichino le forme della corporate governance delle imprese, limitando il potere dei manager di appropriarsi di rendite che dovrebbero avere un’altra destinazione.

Insomma, passi da fare ce ne sono e, purtroppo, non sembrano all’ordine del giorno: ma l’ampio menù da cui si può prendere ispirazione potrebbe indurre a una vena di ottimismo, se si avesse davvero voglia di affrontare il problema.