4200, un piccolo paese l’anno: è il numero degli italiani che ogni anno sceglie di togliersi la vita . Un tasso percentuale nella popolazione inferiore rispetto alla media europea e mondiale (Lituania, Slovenia e Corea del Sud le nazioni più falcidiate) con un trend in decrescita a dispetto della crisi economica, secondo i dati dell’OMS; pur sempre tra le prime cause di morte nella fascia di età 15-34.
Il tema di ciò che Cesare Pavese definì omicidio timido è usualmente eluso in tutte le culture: chi si toglie la vita evoca fantasmi mortiferi, farla durare il più possibile è valore dominante. Maurizio Pompili, tra i più importanti suicidologi in ambito internazionale, è a capo del Servizio per la Prevenzione dei Suicidi con sede a Roma; in un’ottica di prevenzione ci parla dei dati scientifici legati al suicidio, spesso distanti dall’opinione comune. A cominciare dal falso mito per cui le persone a rischio raramente ne parlano. “Le persone che commettono il suicidio spesso offrono segnali verbali al riguardo. Alcuni studi riportano che almeno due terzi degli individui suicidi avevano espresso la loro intenzione di metterlo in atto; quasi nessuno lo commette senza lasciar sapere ai parenti e amici come si sente. Il suicida raramente è determinato a morire, e spesso nutre una profonda ambivalenza verso la morte: il percorso verso l’esito fatale è riconoscibile e nasce dall’insostenibilità di gestire un dramma, un’umiliazione; comporta pensieri ruminanti e dolore mentale insopportabile, per cui ogni altro tentativo di soluzione si è rivelato un fallimento. Un altro falso mito prevede che parlare di suicidio possa innescare il comportamento suicidario. In realtà molti soggetti alle prese con problematiche psichiche e fisiche hanno già considerato il suicidio: la discussione aperta dell’argomento aiuta la persona in crisi a capire meglio i suoi problemi e le possibili soluzioni, fornendo sollievo e comprensione.” La prevenzione passa per la diffusa conoscenza dei più comuni comportamenti che segnalano un possibile suicidio imminente. “Bisogna dare massima attenzione ad alcuni comportamenti: isolarsi, disfarsi delle cose più care, sistemare gli affari e fare testamento, trascurare l’aspetto fisico, esprimere la convinzione che la vita non ha senso o anche mostrare un miglioramento improvviso e inspiegabile dell’umore dopo essere stato depresso”. Altro rischio è quello dello stigma, marchio peggiorativo nei confronti del suicida e dei suoi cari, retaggio dei secoli in cui venivano loro applicate pubbliche umiliazioni o la confisca dei beni. In Italia è ancora implicito il motto di Sant’Agostino chi uccide sé stesso uccide un uomo: i sottili processi di emarginazione nei confronti dei sopravvissuti sono in grado di aggravare i sensi di colpa per un evento definito dalla letteratura scientifica come catastrofico, assimilabile all’esperienza in un campo di concentramento. “Lo studio di centinaia di messaggi d’addio indica che, sebbene la persona suicida sia molto infelice, non necessariamente è un malato mentale. Da rifuggire anche l’idea per cui una persona che compie un tentativo rimarrà per sempre un aspirante suicida. Il comportamento suicidario è spesso impulsivo, e come tutti gli impulsi è transitorio: gli individui che vogliono uccidersi sono a rischio solo per un periodo limitato di tempo”. Una soluzione per depressi, aspiranti suicidi (un numero da 10 a 25 volte superiore a chi vi riesce) o survivors (parenti e amici delle vittime) è comunque parlarne, non nascondersi o rinchiudersi. A Roma il centro di Pompili ha pochi emuli a livello europeo, pur basandosi su scarse risorse e sul volontariato; solo nei paesi anglosassoni è presente una sensibilità pronunciata, come dimostrano le campagne informative affidate ai calciatori in Gran Bretagna o l’innovativo servizio di Facebook, limitato per ora solo agli Stati Uniti, di segnalazione di status a rischio e invito alle locali strutture di supporto. Iniziative da potenziare per un fenomeno che causa nel mondo più morti di tutti i conflitti armati e incidenti automobilistici.