Lavorare in un luogo diverso da quello abituale. Una realtà sempre più in crescita nelle grandi aziende e nelle piccole e medie imprese italiane. Lo rivela la recente ricerca dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, che rileva come il “lavoro facile” fa invece fatica ad affermarsi nella pubblica amministrazione.

I dati parlano chiaro. Nel campione d’imprese prese in esame, ben il 36% delle grandi società ha già in corso progetti ben definiti, che spaziano dalla flessibilità del posto di lavoro agli orari, passando anche per il tipo di strumentazione da utilizzare, mentre tra le piccole e medie imprese la percentuale scende al 7%. Fanalino di coda la pubblica amministrazione con il 5%.

Lo smart working coniuga le esigenze di produttività dell’azienda con quelle personali dei lavoratori, a cui il progetto viene incontro in maniera intelligente. Per i dipendenti interessati vengono mantenute tutte le garanzie del caso: volontarietà di accesso alla sperimentazione e possibilità di interrompere il progetto in qualsiasi momento, mantenendo invariate, inoltre, tutte le tutele previdenziali e di assicurazione sul lavoro.

Pregiudizi e timori frenano lo sviluppo dello smart working nelle piccole e medie aziende. Questo nonostante tutte le ricerche evidenzino notevoli benefici in termini di produttività e profitti. Pesano anche i pregiudizi da parte dei piccoli imprenditori, che temono uno scarso impegno da parte dei propri dipendenti, mentre questi ultimi sono spaventati da possibili conflitti interni con chi non sceglie la modalità di lavoro flessibile.

Tra le piccole imprese che non hanno ancora adottato sistemi di smart working, il 9% pensa di introdurlo entro il prossimo anno. Il 13%, invece, ritiene di non doverlo adottare. In Italia uno degli esempi più virtuosi è quello della Barilla, che ha iniziato ad adottare questo sistema di lavoro già dal 2013 e che conta di estendere questa modalità a tutti i propri impiegati entro il 2020.

Per quanto riguarda invece le amministrazioni pubbliche, solo il 5% di esse adotta questa modalità, mentre un 4% sostiene di avere delle forme ibride di smart working non ufficiali. In questo caso però in tanti non conoscono a fondo le potenzialità di questa modalità di lavoro e circa il 50% dichiara comunque di essere interessato a introdurlo. Nel caso della PA c’è chi teme che non si possa applicare alla propria realtà (66%), o che la normativa in essere sia carente (27%), mentre altre realtà scontano un basso livello di digitalizzazione della macchina amministrativa (18%).

Per quanto riguarda le fasce di età e le categorie sociali, sono soprattutto le donne tra i 30 e i 50 anni ad aderire maggiormente allo smart working, così come chi deve effettuare spostamenti molto lunghi per recarsi sul posto di lavoro. I giovani sono quelli che aderiscono di meno. È stato calcolato che più si va avanti con l’età più si è propensi a sperimentare questa nuova forma di lavoro. Per i prossimi tre anni si prevede comunque un netto incremento, con le aziende sempre più pronte ad attrezzarsi e a prevedere forme di smart working per figure professionali che attualmente non lo possono praticare (63%).

Crediti immagine: Eugenio Marongiu /Shutterstock.com

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