Si è parlato di donne a cinque cerchi, di un’olimpiade rosa come mai.
Le donne dell'Arabia Saudita non ci dovevano essere, non potevano gareggiare. Il Principe Nawwaf bin Faisal, Presidente del Saudi Arabian Olympic Committee, lo scorso novembre aveva annunciato che a Londra sarebbero andati solo uomini. Per far gareggiare le donne, infatti, uno dei problemi da risolvere era come adeguare gli abiti sportivi ai precetti islamici.
Cristoph Wilcke, nel dossier Steps of the Devil - Denial of Women's and Girls’Rights to sport in Saudi Arabia, pubblicato a febbraio da Human Rights Watch, aveva già denunciato il difficile rapporto tra lo sport femminile e l’Islam in Arabia Saudita, ma alla fine le pressioni dell'International Olympic Committee (CIO) hanno avuto la meglio e Arabian Business ha potuto prontamente smentire i comunicati emessi dagli organismi di stampa del regno per i quali avrebbero gareggiato solo atleti maschi (http://www.arabianbusiness.com/videos/olympics-bring-change-arab-women-467442.html). Nulla ha dunque impedito all'Arabia Saudita di fare la cosa giusta e così Wodjan Ali Seraj Abdulrahim Shahrkhani ha potuto combattere nella categoria judo +78 chilogrammi e Sarah Attar ha potuto correre negli 800 metri di atletica.
È stata così annunciata una edizione da passare alla storia: ogni delegazione delle 205 partecipanti doveva essere presente con almeno una rappresentante. Prima volta per il Qatar con 4 atlete e per Bahiya Al Hamad, campionessa di tiro di quel paese, un doppio record: prima atleta olimpica del suo paese e per di più portabandiera. Una atleta anche per il Brunei, Maziah Mahusin, diciannovenne iscritta alla gara dei 400 ostacoli; l’Iran ha partecipato con otto donne. E Nur Suryani Taibi, Malesia, capo coperto e gravidanza all’ottavo mese, ha gareggiato con la carabina. Gli Usa si sono presentati con un team a maggioranza femminile: 269 atlete e 261 uomini. È cresciuto anche il numero delle italiane: 126, il 43.5% della squadra, a Pechino 2008 erano solo un 38%.
Dati importanti, soprattutto se confrontati a quelli delle Olimpiadi del 1996 ad Atlanta, quando furono ben 26 le Nazioni che non presentarono atlete donne ai Giochi. Un decisivo passo avanti che arriva dopo poco più di un secolo dall’edizione di Parigi, nel 1900, quando a rompere gli schemi fu la tennista Charlotte Cooper, prima campionessa olimpica. E ancora a Londra oltre agli Stati Uniti anche Cina, Cameroon, Russia, Nepal e altre 25 squadre hanno partecipato con un numero di donne maggiore degli uomini. Circa il 44% di tutti gli atleti sono state donne. Nessun dubbio insomma sul protagonismo femminile nell’edizione di Londra 2012, anche se poi sono state applicate all’interno delle squadre alcune incredibili discriminazioni: le atlete di Australia e Giappone hanno protestato perché, pur vincendo alla fine più medaglie degli uomini, hanno però dovuto viaggiare in classe economy mentre per i colleghi maschi erano pronti biglietti di business. Per le atlete italiane altra discriminazione poco comprensibile se non addirittura assurda: nessuna atleta azzurra può avvalersi della legge 81 del 1991 sul professionismo sportivo. Le atlete, in Italia, sono tutte delle dilettanti.
Le Olimpiadi di Londra dovevano così essere le prime a garantire una presenza di donne in tutte le squadre. Le parole del presidente del CIO, Jacques Rogge, pronunciate nel suo discorso di apertura dei giochi olimpici di Londra 2012 erano del resto iniquivocabili: “For the first time in Olympic history all the participating teams will include female athletes. This is a major boost for gender equality”.
Ma è andata poi veramente così? Curiosando meglio tra i numeri, si scopre che le cose stanno diversamente. Il quotidiano inglese “The Guardian”, in un esempio di data journalism ormai sempre più diffuso all’estero, ha elaborato i dati delle liste di atleti di questa edizione delle Olimpiadi e ha realizzato una visualizzazione grafica meticolosa (http://www.guardian.co.uk/sport/datablog/2012/jul/27/london-olympic-athletes-full-list). Si scoprono così i casi di Barbados, 6 uomini e 0 donne, e di Naru, 2 uomini e 0 donne: non ci sono state insomma atlete olimpiche né per l’isola del mar dei Caraibi, né per lo stato insulare dell’Oceania. Ma c’è anche il dato del Bhutan con 2 donne e 0 uomini che rileva una discriminazione nell’altro senso. Come quella di vietare l’accesso agli uomini a due discipline olimpiche: il nuoto sincronizzato e la ginnastica ritmica.
L’International Olympic Committee dovrà lavorare ancora per realizzare l’obiettivo sbandierato a Londra 2012 di una presenza femminile in tutti i gruppi partecipanti. Non resta che confidare quindi in Rio 2016. Certo consultando il sito del Comitato Olimpico Internazionale l’ottimismo diminuisce quando si scopre che dei suoi 109 membri solo 21 sono donne, dei 32 membri onorari solo 4 sono donne e l'unico membro d’onore è un uomo, Henry Kissinger. Tutto ancora molto lontano da quella eguaglianza di genere sventolata.