Ogni guerra, come quella scatenata in Ucraina dalla Russia, provoca tra l’opinione pubblica, quindi anche tra gli intellettuali, reazioni emotive e, talvolta, incoerenti. Per esempio, può capitare che in Italia un grande della letteratura russa come Fëdor Dostoevskij (1821-1881) possa fare le spese delle scelte intraprese, due secoli dopo la sua nascita, dal presidente-autocrate postsovietico Vladimir Putin. È capitato di recente a Milano, con la censura di un corso sullo scrittore programmato in un’università. Viene da chiedersi se questo tipo di reazione sia una novità, se ci siano stati alcuni precedenti, se in Russia per ritorsione si stia pensando di censurare il nostro Dante.
Proviamo a immaginare il passato, arrivando al 10 giugno 1940. Quel giorno, alle 18.00, Benito Mussolini, acclamatissimo, annuncia, dal balcone di Palazzo Venezia a Roma, l’entrata in guerra dell’Italia, al fianco della Germania nazista, contro Francia e Regno Unito: «Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente!». A parte le contromisure di tipo militare da parte dei nuovi nemici degli italiani, nel giro di pochi giorni tutte le università francesi e britanniche smettono di svolgere corsi su Dante Alighieri: per “vendetta” nei confronti di un personaggio del passato considerato “complice” dei dittatori scesi in campo parecchi secoli dopo. La stessa scelta viene presto fatta dagli atenei degli Stati Uniti; tanto più dopo l’11 dicembre 1941, quando il Duce annuncia di aver dichiarato guerra pure agli USA, in base al patto con tedeschi e giapponesi. Nei Paesi alleati ben presto Dante ‒ scelto come “colpevole” perché sfruttato molto (a sua insaputa) dalla propaganda fascista ‒ diventa, a livello accademico e intellettuale, il simulacro del nemico italiano, quindi finisce censurato.
Tutto vero? Macché. Ci siamo concessi un breve racconto fantastorico, seppur inquietante. L’unico elemento vero citato è l’uso di Dante da parte della propaganda mussoliniana. Come ha scritto Nicolò Crisafi, che insegna letteratura italiana all’Università di Cambridge, «il fascismo… si arrogò il diritto di celebrare un Dante padre della patria, eroico, virile, autoritario, nazionalista, antisemita, amante dell’ordine e della legge… L’inno del partito fascista Giovinezza… fu emendato dopo la marcia su Roma per includere i versi ‘la vision dell’Alighieri / oggi brilla in tutti i cuor’». In realtà, nonostante questo abuso, nessun ateneo nei Paesi avversari del nazifascismo pensò di censurare lo studio di Dante; eppure era in corso la Seconda guerra mondiale. Semmai qualcosa del genere sta accadendo in Italia, su nuovi fronti.
Il fatto è che la guerra scatenata dalla Russia di Putin sul suolo ucraino ci tocca emotivamente più di altre decine e decine di guerre in corso nel mondo. Non tanto perché i nostri confini ‒ tra Gorizia, in Italia, e Berehove, in Ucraina ‒ distano appena 906 km, circa quanto quelli che separano Milano da Bari. La serie di guerre nell’ex Iugoslavia, tra 1991 e 2001, ci aveva colpito meno, eppure accadeva sulla porta di casa. La reazione emotiva che vediamo ora in Italia non è solo questione di solidarietà, doverosa, col popolo ucraino; oggi è legata al fatto che noi italiani avvertiamo maggiormente la minaccia diretta sul nostro mondo, dato che in ballo c’è una superpotenza militare, economica (che ci fornisce il 40% del gas) e politica come la Russia, dotata di armi nucleari. Temiamo molto di più che in passato di essere coinvolti direttamente, di subire contro-sanzioni o peggio; più o meno inconsciamente, temiamo anche di poter apparire come complici o, almeno, come indifferenti e non solidali.
Questa emotività ha contagiato anche gli intellettuali. Non si spiega altrimenti l’ormai noto caso, cui si è accennato all’inizio, del corso su Dostoevskij, previsto all’Università Bicocca di Milano. Sarebbe dovuto iniziare in questi giorni, ma probabilmente non si farà. Chi lo avrebbe dovuto condurre, lo scrittore Paolo Nori, ha rinunciato, salvo ripensamenti. In estrema sintesi, l’ateneo milanese da tempo aveva invitato Nori, traduttore del grande scrittore russo e autore del volume Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij (Mondadori, 2021), a svolgere quattro incontri, gratuiti e aperti a tutti, a partire dal 2 marzo. Il 1° marzo, però, la rettrice gli ha chiesto, via email, di «rimandare il percorso» per «evitare ogni forma di polemica, soprattutto interna, in quanto è un momento di forte tensione».
Nori, amareggiato e imbufalito, si è sfogato su Instagram: «Trovo che quello che sta succedendo in Ucraina sia una cosa orribile e mi viene da piangere solo a pensarci. Ma quello che sta succedendo in Italia oggi, queste cose qua, sono ridicole: censurare un corso è ridicolo. Non solo essere un russo vivente è una colpa oggi in Italia, ma lo è anche essere un russo morto che, quando era vivo, nel 1849, è stato condannato a morte perché aveva letto una cosa proibita. Che un’università italiana proibisca un corso su un autore come Dostoevskij è una cosa che io non posso credere». Tutto ciò ha scatenato valanghe di polemiche, anche perché neppure a un ucraino in prima linea, probabilmente, verrebbe mai in mente di attribuire una collusione dello scrittore del XIX secolo, celeberrimo nel mondo slavo e anche nel nostro (così come tantissimi altri grandi della fondamentale letteratura russa), con le scelte di Putin nel XXI.
Dopo proteste, interrogazioni parlamentari e ogni genere di commento, on-line e off-line, i vertici della Bicocca hanno fatto retromarcia. Ma ormai la frittata, in nome di una malintesa concezione del “politicamente corretto”, era stata fatta. Per giunta, nel confermare il ciclo di incontri, l’ateneo aveva poi chiesto a Nori di affiancare a Dostoevskij anche autori ucraini, tanto per “equilibrare”. Nori ha replicato di nuovo: «Non condivido questa idea che se parli di un autore russo devi parlare anche di un autore ucraino, ma ognuno ha le proprie idee. Se la pensano così, fanno bene. Io purtroppo non conosco autori ucraini, per cui li libero dall’impegno che hanno preso e il corso che avrei dovuto fare in Bicocca lo farò altrove». Le ulteriori scuse da parte della rettrice non sembrano aver avuto effetto.
Il caso milanese non è isolato. A Reggio Emilia, per esempio, la partecipazione dei fotografi russi a un festival di fotografia è stata annullata. Nel comunicato ufficiale si legge che, «stante la terribile guerra in atto, la Fondazione Palazzo Magnani e il Comune di Reggio Emilia, organizzatori del Festival di Fotografia Europea che prevedeva la Russia come paese ospite dell’edizione 2022, hanno deciso di annullare la mostra Sentieri di Ghiaccio e gli eventi correlati dedicati alla cultura russa. Purtroppo, non sussistono più le premesse e le condizioni per portare a termine il lungo lavoro dei mesi scorsi. L’arte e la cultura dovrebbero sempre costruire ponti e non innalzare muri; tuttavia, non possono ritirarsi in torri d’avorio: c’è un tempo per affermare con fermezza il diritto dei popoli a vivere in pace e un tempo per aprirsi al dialogo e al confronto, senza che violenza e morte siano invitate al tavolo».
Sembra quasi che il comunicato emiliano sia una smentita della sua stessa tesi, apprezzabile, secondo la quale «l’arte e la cultura dovrebbero sempre costruire ponti e non innalzare muri». Tanto più che ‒ così come Dostoevskij, scrittore ottocentesco, non può essere accusato di collusione col Putin ‒ è difficile mettere all’indice alcuni grandi fotografi. Oltre tutto, per esempio, uno di quelli esclusi è appena stato arrestato dalla polizia del regime russo: si chiama Alexander Gronsky, fermato mentre protestava contro la guerra in Ucraina. Rimasto in detenzione per 12 ore, è a casa e sta bene. Lui ha fatto sapere di «capire la scelta». Forse fa più fatica a capirla chi, in Italia e altrove, punta su quei ponti garantiti dalla cultura.
Nel frattempo, l’opportunità di ospitare gli accademici russi in Italia per dibattiti e convegni serpeggia nel dibattito ufficioso che è in corso tra molti loro colleghi italiani. Vedremo gli effetti. Per fortuna, si può citare un comunicato diffuso il 4 marzo dall’Associazione italiana biblioteche (AIB): «Le biblioteche e i luoghi della cultura sono luoghi di pace, di accoglienza, di confronto delle idee ed è dovere professionale dei bibliotecari promuovere conoscenza e dialogo interculturale, anche e soprattutto durante le guerre. Alcuni fatti recenti ci costringono purtroppo a ribadire questa che, almeno per la nostra comunità professionale, appare una ovvietà. Sentiamo di dover esprimere il nostro totale dissenso rispetto ad alcuni appelli circolati ultimamente, come quello delle Biblioteche nazionali dei paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e dell’Associazione delle biblioteche ucraine, a espellere l’Associazione dei bibliotecari russi da IFLA; o quello dell’Ukrainian Book Institute a boicottare i libri in lingua russa… La solidarietà con il popolo ucraino non passa certo per la discriminazione del popolo russo, e tantomeno per la censura delle sue espressioni linguistiche e culturali, come da qualche parte si vorrebbe fare». In attesa di tempi migliori, ci auguriamo che nessun ateneo russo abbia deciso, nel frattempo, di censurare, per “ritorsione”, Dante, Petrarca o Manzoni.
TUTTI GLI ARTICOLI DI ATLANTE SULLA GUERRA IN UCRAINA