“E questa non è una faccenda personale, Mate”, aggiunge Minerva. “È una questione di principio”. Non sono mai riuscita a cogliere questa differenza tanto cruciale per mia sorella. Si direbbe che tutto quello che per me è personale, per lei è una questione di principio. (Julia Alvarez, Il tempo delle farfalle_, 1994)_

La dittatura di Trujillo, nella Repubblica Dominicana, nata negli anni Trenta, durò trent’anni e fu una tra le più atroci e sanguinarie del Novecento. Morirono circa 30.000 persone tra oppositori politici e ribelli, oltre ai 20.000 haitiani che abitavano ai confini della Repubblica e che Trujillo fece giustiziare. Su una superficie modesta – parliamo di una terra circondata dall’oceano, grande come Lombardia e Piemonte.

La ricorrenza del 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, risale proprio a quei tetri anni.

Erano quattro le sorelle Mirabal: Patria, Dedé, Minerva, Maria Teresa (detta Mate).

Patria, sorella maggiore (un nome, un destino) era sposata e aveva quattro bimbi; Minerva laureata in Diritto, sposata, madre di due figli; Mate, la più piccola, agronoma, sposata, ebbe una figlia. E poi c’era Dedé…

Siamo alla fine degli anni Cinquanta, il regime di paura di Trujillo soffocava da decenni intere famiglie, villaggi; la repressione dei cosiddetti “nemici” era incondizionata; lo sfruttamento della “forza lavoro” – esseri umani ridotti in schiavitù – assoluta.

Tutti dicono che i guai cominciarono quando Minerva incontrò Trujillo ad un ballo e, davanti a tutti, lo schiaffeggiò. Ma la verità è che Minerva era in cerca di guai già da due o tre anni.

Le sorelle sono giovani, molto giovani. Patria (la maggiore) ha 35 anni, mentre Mate, l’ultima, ne ha solo 24. Hanno mariti giovani, e bimbi e bimbe piccoli. Hanno voglia di vivere, di veder crescere i propri figli. Voglia di essere amate e di amare; di vivere vite serene.

Ma per le sorelle Mirabal c’è qualcosa di più, qualcosa che va oltre la felicità personale, per cui vale la pena combattere.

Ho chiesto a Minerva perché faceva delle cose tanto pericolose. A quel punto mi ha dato una risposta stranissima. Perché voleva che io crescessi in un Paese libero. “Ma non lo è già?”, ho domandato.

Insieme ai mariti, anch’essi strenui oppositori del regime di Trujillo, le Mirabal costituiscono “El Movimiento Revolucionario 14 de Junio”; movimento rivoluzionario clandestino che lotta ferocemente contro la dittatura. Ad armi impari.

Ne fanno parte centinaia di donne e uomini: molti vengono scoperti, incarcerati, martoriati, giustiziati. Anche le sorelle Mirabal (nascoste dal nome in codice “las mariposas”) vengono incarcerate, picchiate, minacciate di morte. I mariti stessi sono arrestati e torturati in quanto prigionieri politici. Trujillo prova un odio feroce per questo movimento clandestino, e in particolare per le sorelle Mirabal, donne che hanno osato ribellarsi al suo potere fino a quel momento incontrastato, smantellando il culto di onnipotenza quasi religiosa costruito attorno alla sua figura.

A volte penso che la rivoluzione sia diventata una specie di abitudine, per Minerva.

Nell’autunno del 1960 le giovani donne sono da poco uscite di prigione e finalmente possono riabbracciare i bimbi (custoditi e protetti da Dedé, la sorella che ha scelto di non combattere ma resistere, stare in seconda linea, accudire, curare… ricordare). I rispettivi mariti, però, sono ancora incarcerati. Anzi, inaspettatamente gli uomini vengono trasferiti al carcere di Puerto Plata, lontano dalla cittadina in cui vivono le donne, costringendole così a lunghi viaggi, attraverso un’impervia stradina che si inerpica lungo le montagne, per poterli visitare.

Disquisivo con me stessa. Cos’è più importante, una storia d’amore o la rivoluzione? Ma una vocina continuava a rispondere, tutte e due, tutte e due.

È un venerdì, il 25 novembre, giorno di visita per i parenti dei carcerati a Puerto Plata; da giorni violenti temporali si alternano a schiarite nel cielo sopra Ojo de Agua.

Patria, Minerva e Mate partono la mattina presto, in auto, per recarsi dai mariti, lasciando a casa, insieme alla sorella, tutti e sette i bimbi (otto, contando il bimbo di Dedé). Arrivano al carcere, salutano, accarezzano, rassicurano, e infine imboccano la via del ritorno. Dove la loro storia si ferma.

“Vuoi combattere le cause di tutti quanti, è così?__”. “È sempre la stessa causa, Mate” risponde.

L’auto è stata ritrovata in un fosso, dietro una “brutta curva” vicina al passo La Cumbre. I corpi, massacrati ma riconoscibili, perfettamente posizionati sui sedili. Pare che l’autista abbia perso il controllo del mezzo, forse a causa del brutto tempo. Questa è la storia che Trujillo ha raccontato.

La storia, quella vera, è che le ragazze, vittime di un agguato lungo la strada verso casa, vennero trascinate fuori dall’auto da cinque uomini e massacrate di botte in un campo di canna da zucchero. Poi, morte, furono adagiate sui sedili dell’auto e spinte giù da un dirupo per simulare l’incidente.

Questo ennesimo affronto alla dignità e alla libertà porta all’apice la rabbia del popolo e del Movimiento 14 J e, a un anno dall’assassinio delle sorelle Mirabal, Trujillo viene ammazzato da un colpo di fucile e nella Repubblica Dominicana si indicono le prime elezioni democratiche dopo 31 anni di dittatura sanguinosa.

E, alla fine di questa storia, resta solo Dedé. Sopravvissuta per raccontare. (Morirà di polmonite nel 2014, all’età di 89 anni).

C’è davvero qualcosa di profondo. Qualcosa che qua dentro riesco a percepire, specialmente la notte: una corrente che ci attraversa, come un ago invisibile che cuce l’una all’altra, per formare la gloriosa e libera nazione che diventeremo.

La violenza di genere, la violenza contro le donne, è una piaga che devasta l’Italia, quotidianamente. E non penso di esagerare nel definirla tale. I numeri parlano da sé ma non voglio che questo diventi l’ennesimo articolo che sciorina elenchi di morti e feriti (anzi, morte e ferite) in un Paese che ama definirsi civilizzato e democratico. Non perché cifre e statistiche non servano. Ma perché con questi numeri bisogna farci qualcosa. Ora. Immediatamente.

Non nascondo che, a me, fa rabbia, tanta rabbia. Non solo la violenza in sé, ma come se ne parla, come viene banalizzata, sminuita, resa strumento per dire (o non dire) altro.

Non è un problema delle donne, la violenza sulle donne. Non ne siamo la causa, non ne abbiamo nessuna colpa; sarebbe come dire che gli ebrei hanno causato l’olocausto. E chiedere alle donne di “imparare a difendersi”, equivale a uno Stato che costruisce rifugi antiaerei invece che processi di pace.

Soprattutto, mi fa rabbia quando si tira in ballo la “questione culturale”. Non perché la cultura di un Paese non abbia enorme peso in una condizione così devastante, ma perché ormai è una frase fatta, vuota di significato, che chiunque, anche chi di questioni di genere non capisce (perché non vuole) capire nulla, si riempie la bocca. Perché tutto è una questione culturale! Un Paese in cui c’è un altissimo numero di furti e rapine, ad esempio, non deriva forse da una questione culturale? Un Paese con un elevato tasso di evasione fiscale, non è prodotto di una questione culturale? Una tradizione che impone matrimoni forzati alle bambine, o infibulazioni, non è forse una questione culturale?

Mi occupo di “diversità e inclusione” nelle aziende e spesso, quando come consulente propongo e spingo verso un cambiamento (riconoscere più giorni di congedo per paternità ai dipendenti, retribuito; monitorare il gap salariale tra uomo e donna parallelamente alle prestazioni; promuovere lo smart working come strumento di maggior rendimento e conciliazione – per tutti/e! –, eccetera) la tipica risposta di chi non ha voglia di far nulla, poiché il cambiamento implica fatica e restare seduti al proprio posto lasciando tutto immutato, no, si riduce sempre e inesorabilmente a: “…vede, dottoressa, è una questione culturale”.

Bene, e allora? Certo che è una questione culturale. Ma il passo successivo? Come vogliamo agire, cosa vogliamo fare per affrontarla? Non è certo una frase da fine romanzo: “…è una questione culturale”. Non mette un punto. Apre mondi. A tutto ciò che necessariamente va fatto perché la cultura cambi e si modifichi. È faticoso? Molto. È un processo lungo? Certo. A maggior ragione, diamoci una mossa.

Mi permetto di segnalare qui un esempio concreto di processo di cambiamento.

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#cultura#violenza#donne