6 agosto 2021

“È un caso a parte”: l’identità tunisina nella casba di Mazara del Vallo

 

Il colore dei grossi vasi decorativi risalta al bivio tra i palazzi dall’intonaco malandato. Da piazza Porta Palermo si biforcano l’omonima via e via Bagno, assi paralleli che ospitano ciascuno un circolo ricreativo tunisino e da cui si snodano decine di traverse tortuose. Vicoli che diventano cortili e poi di nuovo vicoli. Più avanti le strade cambiano nome e scendono fino al porto-canale del fiume Mazaro, dove un panorama di pescherecci, anche distrutti, spiazza l’occhio ormai abituato alla visuale stretta.

 

Dalle parti della casba di Mazara del Vallo, storica cittadina di pesca in provincia di Trapani, abita Chamia Mathlouthi, tunisina di 21 anni. Parla italiano con difficoltà e fatica spesso a seguire le lezioni on-line dell’università. È in questi momenti che chiede alla madre perché il padre l’abbia mandata al liceo in Tunisia, nonostante la famiglia sia in Italia da trent’anni. «È meglio, perché così conosci la tua lingua e la tua cultura», le ha già risposto Zohra Mehdhbi. In questo quartiere l’identità araba è più forte che altrove.

 

Qui, dove abita buona parte della più significativa comunità tunisina d’Italia, circa 3.000 tunisini, rimane l’impianto islamico della dominazione araba dell’827, quando i berberi sbarcarono a Mazara dall’attuale Tunisia e cominciarono l’invasione della Sicilia. Dodici secoli dopo, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, i tunisini “ritornarono” a Mazara, migrandovi per lavorare nella pesca che a quel tempo era in forte crescita.

 

«Il ritorno infelice», come lo descrive nell’omonimo libro Antonino Cusumano, presidente dell’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo, analizzando quegli arrivi. «L’invasione gloriosa di un tempo è divenuta la diaspora di diseredati. Mazara non è più il fortilizio da conquistare ma l’estrema spiaggia di una minima fonte di guadagno».

 

La casba fu il ghetto dei mazaresi e lo divenne poi degli emigrati. Quando i primi lasciarono il quartiere dopo il terremoto del 1981, soprattutto i tunisini vi trovarono rifugio a buon mercato per massimizzare i risparmi del lavoro in mare e fare comunità. «È dagli anni Ottanta, infatti, che quest’area cominciò a essere chiamata impropriamente “casba”, per sottolinearne l’aspetto sociale e l’atmosfera degradata», spiega Mario Tumbiolo, architetto mazarese. «Ma la persistenza della tradizione urbanistica islamica la rende singolare. È ben scandito lo spazio tra le aree pubbliche, private e semiprivate. I cortili sono chiusi alla vista esterna per proteggere le entità domestiche e i vicoli decentrati possono essere considerati come un involucro protettivo delle antiche forme di vita popolare».

 

Secondo Hafef Hagi, responsabile di PONTES, una delle principali associazioni della diaspora tunisina in Italia, con sede a Milano, «si tratta di una dimensione unica. La comunità tunisina che vi risiede è un caso a parte, un’eccezione. È poco emancipata e non sempre sfrutta gli spazi di democrazia di cui dispone, ma ha un rapporto particolare con la Tunisia, anche grazie al pendolarismo tra le sponde del Mediterraneo. E per questo, a volte, è anche invidiata».

 

«Quindi non è raro che alcune famiglie preferiscano che i figli, soprattutto le donne, studino in patria per mantenere i costumi tradizionali», spiega Samia Ksibi, anche lei tunisina, mediatrice culturale presso la fondazione San Vito Onlus di Mazara. «Sono proprio le donne a mantenere l’identità culturale della comunità».

 

Per preservarla e aiutare i suoi cittadini in forte crescita demografica, nel 1981 il governo di Tunisi aprì nel quartiere una scuola elementare. Fu aperta in previsione di una permanenza temporanea dei tunisini a Mazara, che sarebbero tornati in patria una volta accumulate le risorse. «Ma i risparmi non furono mai abbastanza e il progetto del ritorno si è allungato nel tempo fino a scomparire», spiega Cusumano. Oggi nella scuola rimangono una ventina di alunni, come alla sua apertura, ormai quarant’anni fa, mentre nei primi anni Duemila gli studenti erano oltre un centinaio.

 

«La mentalità sta cambiando», spiega con espressività teatrale Salah Omri, il maestro della scuola, che si trova a Mazara da poco tempo, perché gli insegnanti come lui sono inviati «in missione» dalla Tunisia per quattro anni al massimo. «Le famiglie pensano che l’arabo e il francese non siano più importanti e preferiscono parlare italiano», conclude Omri. E oggi l’istituto tunisino è come una cartolina dal passato, dai vicoli della casba.

Salah Omri, il maestro della scuola elementare tunisina, Mazara del Vallo, 27 giugno 2020 (foto di Sofia Calderone)

Vicoli dormienti. Molti uomini lavorano in mare o nei campi e la maggioranza delle donne trascorre il tempo a casa. Non ci sono mercati o botteghe ad animare queste strade. La precedente amministrazione comunale ha tentato di ravvivarle installandovi delle ceramiche colorate, ma è qualche albero qui e lì a spezzare l’atmosfera desolata. Come nel Cortile del Turco, dove un ulivo copre l’ingresso di una casa dalla facciata mezza intonacata e mezza ancora grezza, tipico da queste parti. 

Via Pilazza, nel cuore della casba, Mazara del Vallo, 27 giugno 2020 (foto di Sofia Calderone)

Dalip Ramadani fa un giro nei dintorni per ammazzare la noia e se incontra turisti spaesati li ferma per orientarli. Ha 55 anni ed è uno dei circa 160 “slavi” che abitano nel quartiere. Dagli anni Novanta s’insediarono anche loro qui, in fuga dalla guerra dei Balcani. «Io e mia moglie siamo venuti da sposini a 33 anni, per raggiungere il cognato di lei», racconta lui, di nazionalità serba. «Non ho più alcun ricordo del mio Paese e non ci sono mai tornato». Quelli come lui faticano a trovare un’identità e hanno assorbito, talvolta, quella circostante. I rapporti tra slavi e tunisini non sono dei migliori e gli spazi della casba seguono logiche di segregazione etnica, eppure «da qualche anno ho avvertito in modo più forte l’influenza dei tunisini, anche se li frequento poco. Conosco di più gli italiani. Sono sempre stato musulmano non osservante, ma di recente io e la mia famiglia abbiamo cominciato a pregare», spiega Ramadani, che abita non lontano da piazza San Francesco, un luogo simbolico nel quartiere.

Dalip Ramadani, Mazara del Vallo, 27 giugno 2020 (foto di Sofia Calderone)

«Qui si materializza la contrapposizione ideologica, ma anche la “pacifica convivenza” tra Occidente e Oriente, tra cristianesimo e islamismo, con il tempo diventata un dispositivo ordinatore dello spazio», spiega l’antropologa Francesca Rizzo. «Una delle chiese barocche più belle della città si trova accanto alla piccola sala di preghiera musulmana. In questo luogo le spiritualità cristiana e musulmana di fatto quotidianamente si sovrappongono e confondono le loro sonorità e le loro ritualità durante le celebrazioni delle rispettive liturgie».

 

Nel pomeriggio si alzano le saracinesche dei circoli ricreativi e il quartiere si risveglia un po’. Il circolo più antico è quello di via Bagno, ormai quasi in disuso ma dal fascino degli anni Ottanta, quando è stato aperto, quasi contestualmente alla scuola elementare. Oggi il clima è più disteso, ma fino alla caduta di Zayn al-Abidin Ben Ali, presidente tunisino cacciato con la rivoluzione del 2011, questi centri servivano anche a controllare la comunità, con la compiacenza dei gestori.

Il circolo tunisino di via Bagno, Mazara del Vallo, 27 giugno 2020 (foto di Sofia Calderone)

«C’erano le cellule del partito di governo che frequentavano i circoli. Riferivano alle autorità del consolato tunisino di Palermo il comportamento sospetto di alcuni oppositori che potevano rappresentare un pericolo», spiega Karim Hannachi, oggi professore presso l’Università Kore di Enna e un tempo maestro della scuola tunisina, di cui aprì le porte per la prima volta. «I referenti politici si occupavano del controllo perché erano arrivisti alla ricerca di privilegi dal governo, o per spirito patriottico, perché erano convinti di contribuire alla salvaguardia della stabilità politica del loro Paese».

 

In pochi parlano volentieri di queste dinamiche, e sempre con vaghezza, perché l’eredità culturale del regime non è del tutto scomparsa. «Se ti vedevano come un dissidente, una volta rientrato in Tunisia potevi avere problemi con le autorità; si sa che era così», racconta Ramsi Ayari, un avventore del circolo di via Porta Palermo. Ma la mancanza di riscontri documentali mantiene fumose quelle poche informazioni che trapelano.

 

Difficile cavare qualcosa di più dai vicoli della casba, che non si sono mai raccontati a fondo.

 

 

Immagine di copertina: Piazza San Francesco, Mazara del Vallo, 27 giugno 2020 (foto di Sofia Calderone)

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