È la mattina di un giorno lavorativo, in una città italiana qualsiasi. Aprono scuole, uffici, fabbriche, negozi. Nel giro di poche ore, 5.200.000 persone comprano uno dei 93 quotidiani, pari a 104 copie ogni 1.000 abitanti; ovviamente ogni copia passa di mano in mano e il numero di lettori effettivi si moltiplica. Buone notizie per i giornali italiani? Macché. Abbiamo fatto un viaggio indietro nel tempo di 61 anni. Quei dati sono relativi a venerdì 1° gennaio 1960, ricavati dal libro di Paolo Murialdi La stampa italiana del dopoguerra (1943-1972) (Laterza, Bari 1974). Vanno considerati numeri ancor più rilevanti se si considera che all’epoca gli italiani erano poco più di 50 milioni, mentre ora siamo 59 milioni e qualcosa.

Oggi che cosa succede? A luglio del 2021, i 57 quotidiani italiani superstiti (diventati nel frattempo 56, perché purtroppo La Gazzetta del Mezzogiorno barese è chiusa dal 2 agosto, in attesa di nuovi editori) hanno venduto mediamente 1.398.642 copie al giorno, con un calo del 5,1% rispetto allo stesso mese del 2020 (1.472.680). Qualcuno potrebbe obiettare: il calo di vendite nelle edicole è compensato dall’incremento di copie digitali. Sbagliato. Sergio Carli su BlitzQuotidiano.it ha rilevato che nello stesso mese le versioni elettroniche vendute «sono passate da 396.275 nel 2020 a 431.689 nel 2021: 35.000 copie in più contro le 74.000 perse in edicola». Di fatto, negli ultimi 25 anni i quotidiani cartacei hanno perso oltre 5 milioni di copie vendute in un giorno. Parallelamente, chiudono circa 1.000 edicole all’anno. Vent’anni fa, nel 2001, erano oltre 36.000; oggi sono circa 22.000; per giunta, parecchie sono state trasformate in bazar che campano di gadget per bambini, dato che di carta se ne vende sempre meno.

In Italia, insomma, c’è una gigantesca crisi degli organi di informazione cosiddetti “tradizionali” e, in particolare, del settore dei quotidiani. Certo, c’entra lo sconvolgimento dei metodi di fruizione delle notizie: con i social network che stanno assumendo ‒ in modo più o meno affidabile e superficiale, tra news vere e fake news ‒ la funzione di fonte di informazioni per gran parte dei cittadini. Così com’è noto che il malessere dell’informazione vecchio stile è un fenomeno globale. Però c’è un problema prettamente italiano: altrove i media professionali stanno reagendo con relativa efficacia. Mentre in Italia giornalisti, direttori ed editori non sembrano consapevoli delle strade da percorrere, delle opportunità offerte dal web e delle figure professionali necessarie.

Il quadro della situazione nel Belpaese è stato fornito negli ultimi giorni da due ricerche. Ci sono, per cominciare, gli ultimi rilevamenti di Audipress (raccoglie i dati sulla lettura di giornali e periodici), forniti il 30 settembre con la rilevazione II/2021. Data Media Hub (think tank su editoria e digitale, guidato da Pier Luca Santoro) ha elaborato i dati dal 2014, anno cui risale la prima rilevazione omogenea con quelle successive, fino all’ultima rilevazione. Risulta che i lettori dei quotidiani nel giorno medio sono scesi del 40,81%: circa 7,9 milioni in meno tra 2014 e 2021. Nessun altro media italiano durante lo stesso periodo ha accusato un colpo così forte colpo così forte.

Mentre il 6 ottobre il Censis ha presentato il 17° Rapporto sulla Comunicazione, intitolato I media dopo la pandemia. Vi si legge che «per i media a stampa... si accentua la crisi ormai storica, a cominciare dai quotidiani venduti in edicola, che nel 2007 erano letti dal 67,0% degli italiani, ridottisi al 29,1% nel 2021 (-8,2% rispetto al 2019). La versione online di questi passa dal 21,1% al 28,3%, con una crescita inferiore a due punti percentuali negli ultimi due anni. I quotidiani cartacei non hanno mai conquistato i giovani (il 5,9% nel 2021, con un ulteriore decremento del 2,3% negli ultimi due anni) e si rivelano uno strumento di accesso alle notizie soprattutto per i più anziani (il 18,8% degli ultrasessantacinquenni)». Nei guai pure i settimanali (-6,5% nel biennio) e i mensili (-7,8%). Dal 2007 al 2021 scende di poco la fruizione della TV (tradizionale e satellitare, passata dal 93,1% all’87,9%); quella della TV via Internet ‒ web & smart TV ‒ avanza dal 10% al 41,9%, con una crescita di circa 7 punti solo nell’ultimo biennio. Idem per la radio: quella tradizionale va dal 53,7% al 48,8%, quella da telefono cellulare dal 3,6% al 23,8%, da Internet per mezzo del PC passa dal 7,6% al 20,2%.

Le fonti di informazione come sono state usate dagli italiani durante l’emergenza sanitaria? Il Censis scrive che «l’avanzata della pandemia e la successiva fase di reazione al Covid-19 sono stati periodi caratterizzati da un diluvio di informazioni, provenienti da fonti più o meno affidabili, che ci ha sommerso». La maggioranza degli italiani, però, ha privilegiato l’informazione istituzionale, quella dei Tg, utilizzati mediamente dal 60,1% per informarsi negli ultimi 7 giorni precedenti la rilevazione; ai due estremi ci sono i 66-80enni col 73,2% e i 30-44enni con il 39,5%. Segue il social network più popolare, Facebook (30,1%). I motori di ricerca (a cominciare da Google) sul fronte dell’informazione hanno attratto il 22,9% degli utenti (+2,2% tra il 2019 e il 2021) e quasi un terzo dei più giovani (il 30,5%, con un aumento del 3,7%). In coda i quotidiani.

Colpisce dunque quella che appare un’estrema vulnerabilità della stampa quotidiana, in tempo pilastro del sistema mediatico. Atlante ne parla con Pier Luca Santoro, grande esperto di media, consulente di marketing, comunicazione & sales intelligence, project manager di DataMediaHub.

Come mai i quotidiani crollano mentre altri media procedono, pur con qualche difficoltà, nel passaggio dal formato tradizionale a quello digitale?

Prima di tutto valutiamo questa circostanza: la penetrazione di utilizzo dei social passa dal 47,4% del 2012, primo dato disponibile, al 76,6% del 2021. Un’enormità. Di fronte a tale situazione è evidente che il problema dei giornali non è il formato, la versione cartacea o digitale con cui sono proposti. Semmai esiste il problema della scarsa qualità del prodotto.

Eppure i quotidiani usano in modo costante i social, in particolare Facebook. Non serve?

No. L’uso demenziale dei social da parte dei principali editori di quotidiani non paga affatto.

Perché?

Ogni giorno condividono migliaia di articoli ‒ spesso scritti male e titolati peggio ‒ nelle loro fanpage su Facebook, sperando di portare traffico di utenti verso il proprio sito.

Con quali conseguenze?

Pessime. Le persone leggono esclusivamente le anteprime sui social e si ritengono informate. D’altra parte è quello che capita con i giornali di carta: moltissimi guardano solo i titoli. Per notare questi problemi serissimi non bisogna essere geniali, basta ragionare su dati e risultati per qualche minuto. Evidentemente, però, editori e direttori preferiscono barcamenarsi.

Autolesionismo o impreparazione?

Vivono solo di parassitismo digitale. Se uno guarda i media francesi o inglesi o statunitensi vede che cercano figure professionali che in Italia manco si sa che esistono. Per esempio, l’altro giorno Le Monde cercava un engagement editor: figura professionale che si occupa espressamente del coinvolgimento dei lettori, al di là del social media editor. Gente che ha retribuzioni paragonabili a quelle dei giornalisti assunti nei grandi giornali, mica ragazzini da 500 euro al mese, come si usa qui. Insomma, dalle nostre parti si preferisce arrangiarsi e improvvisare. I risultati si vedono.

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