Il punto lo ha centrato Valerio Piccioni, giornalista de La Gazzetta dello sport, in una domanda al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, nella conferenza stampa virtuale dello scorso 26 aprile, una domanda in cui c’è tutto il senso di come lo sport (quello d’élite in questo caso) vada oltre ciò che accade su campi e piste. «Vorrei chiederle se secondo lei il segnale di una possibile ripresa del campionato di calcio di Serie A potrebbe dare un messaggio di ritrovata parziale normalità, o se lei ritiene che in questo momento il Paese, con il suo stato d’animo, non sia in grado di apprezzare una eventuale ripresa». Come insomma l’imprevista e imprevedibile sospensione totale dello sport, a inizio marzo, ha dato plasticamente la misura della gravità della situazione e del senso di emergenza, così il ritorno delle competizioni più importanti potrebbe servire a sollevare il morale.

«Lei sta ponendo la domanda a un appassionato di calcio», ha replicato immediatamente Conte, e forse anche per questo è rimasto piuttosto evasivo nella risposta al quesito. L’ambivalenza, del resto, appare irriducibile: il ritorno dello sport agonistico in generale – e del calcio di Serie A in particolare, essendo il torneo più opulento, amato e discusso d’Italia – risolleverebbe un po’ l’umore di milioni di persone alle quali fornirebbe uno svago televisivo, ma è altresì impossibile pensare di far digerire facilmente la ripartenza di un sistema governato da logiche di show business alle famiglie esasperate da due mesi caratterizzati da angoscia da contagio e distanziamento sociale, dalle ricadute economiche del lockdown e dalla perdita – i casi ormai non sono rari – di qualche affetto. Tanto più che, per farlo, per gli atleti servirebbero controlli e analisi a tappeto, controlli al contrario inaccessibili alla stragrande maggioranza dei cittadini. Le polemiche demagogiche sui privilegi sanitari dei calciatori, del resto, non sono mancate nemmeno prima della sospensione, figurarsi ora.

La fase 2 dello sport agonistico si muove insomma in equilibrio su un filo sottilissimo, in cui la percezione della sua necessità o meno risulta un nodo difficile da sciogliere e, comunque, non privo di conseguenze, ed è in questo senso che vanno lette le schermaglie delle ultime settimane fra il ministro per le Politiche giovanili e lo Sport, Spadafora, e la Lega di Serie A.

I numeri sono un mantra recitato con costanza dai fautori della ripartenza immediata: trattandosi di un settore che vale l’1,7% del PIL e dà lavoro a decine di migliaia di persone, è d’obbligo tracciare un percorso che preveda la ripresa graduale, scongiurando al minimo un crollo occupazionale dovuto ai problemi finanziari di società e associazioni – non a caso, nel decreto-legge “Cura Italia” di aprile era stato introdotto il bonus di 600 euro per i collaboratori sportivi rimasti senza mansioni da svolgere – per non parlare delle entrate che lo sport e l’indotto garantiscono al fisco e che saranno per forza di cose ridimensionate. Non c’è infatti solo l’aspetto ludico e ricreativo, fondamentale per la socialità, ma anche e soprattutto quello economico: diversi sportivi professionisti (anche i calciatori: buona parte di quelli che giocano in C sono al minimo contrattuale, che da accordo collettivo significa un lordo di circa 26 mila euro) non hanno stipendi faraonici, e sono a migliaia gli atleti dilettanti che di sport – attraverso i rimborsi forfettari – o vivono o con esso comunque rimpinguano le entrate del loro mestiere ufficiale. Non è un mistero: a livello dilettantistico, lo sport è un secondo lavoro se non, in taluni casi, proprio il primo, mascherato a volte dal tesseramento nei gruppi sportivi militari o dei corpi di Polizia.

Al di là degli atleti e delle società, c’è anche un altro attore da non sottovalutare: sono i gestori degli impianti sportivi, convitati di pietra della dialettica di una fase 2 che al momento consta della possibilità di ricominciare il 4 maggio gli allenamenti individuali (ma solo per gli atleti riconosciuti di interesse nazionale dal CONI, dal CIP, il Comitato italiano paralimpico, e dalle rispettive federazioni) e dal 18 maggio le sedute collettive per gli sport di squadra. Come è possibile affrontare i costi della riapertura degli impianti, chiedono i gestori, sino a quando l’attività di base e giovanile rimarrà ferma?

Ricominciare in sicurezza è l’imperativo categorico, ma a fronte di un domani senza certezze sul controllo del contagio – in attesa del vaccino – qualsiasi protocollo deve prevedere il rischio di modifiche in corso d’opera e, così come non si può escludere una nuova ondata di contagi nella fase 2, allo stesso modo lo sport non può pensare che una ripartenza sia definitiva. Il calcio, di nuovo: in Europa le decisioni sulla chiusura dei campionati sono sinora disomogenee (la Francia in cui lo stop definitivo è stato decretato dal governo, e la Germania che ha già stilato il programma di ripartenza, al momento, ne evidenziano gli approcci estremi), la UEFA ha indicato linee guida, ma tocca alle varie federazioni la scelta finale, sempre che a toglierle dall’impiccio non pensino direttamente i rispettivi esecutivi. In una situazione del genere vale tutto, compreso l’attendismo italiano, ma la sensazione è che l’orizzonte sia piuttosto limitato e si pensi più a come gestire ciò che ancora non si è concluso – ben sapendo che qualsiasi opzione è destinata a creare malcontento – che ad allungare lo sguardo sul lungo periodo, alla ricerca di soluzioni capaci di prevedere, eventualmente, anche la possibilità di doversi fermare di nuovo in caso di recrudescenza del contagio, senza dovere affondare in termini di sistema.

Di certo lo sport di base palesa già una chiara sofferenza e quello dilettantistico verosimilmente lascerà sul campo diverse società: i maggiori costi richiesti (per controlli sanitari e sanificazioni, ad esempio, soprattutto in caso di impianti condivisi) saranno troppo onerosi per diversi soggetti e, a meno di significative agevolazioni fiscali o in termini di concessioni, potrebbero rivelarsi esiziali, considerando poi pure la prevedibile contrazione degli introiti derivanti da sponsor che, per le associazioni dilettantistiche, spesso sono piccole attività imprenditoriali già stremate dal lockdown.

Peraltro, per diversi mesi mancheranno anche le entrate da botteghino, il cui impatto sulle casse è inversamente proporzionale alle dimensioni del club. Da spettatori, lo sport come lo abbiamo conosciuto sarà a lungo un ricordo: la fruizione degli eventi (e con essa i relativi protocolli di sicurezza) è destinata a modificarsi radicalmente sino a quando, oltre ai rischi epidemiologici, svaniranno quelli percepiti. Se è vero infatti che per un certo tempo non potremo attenderci stadi e palasport aperti al pubblico, è vero anche che gli stessi potenziali spettatori potrebbero voler evitare più a lungo di presentarsi in luoghi affollati. Il distanziamento sociale, inutile negarlo, ha influito sulla psiche ed è destinato a lasciare tracce: lo sport non è un mondo a parte. Non lo è mai stato, ma forse ora è più evidente che mai.

Crediti immagine: Foto di Engin Akyurt da Pixabay

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