Secondo un noto aforisma di Winston Churchill (1874-1965), «a volte l’uomo inciampa nella verità, ma nella maggior parte dei casi si rialza e continua per la sua strada come se nulla fosse». All’indomani di una campagna referendaria che ha visto scatenarsi - dal punto di vista comunicativo - il peggio dell’arsenale di dichiarazioni talmente false da sfidare ogni senso del ridicolo e la pratica dell’insulto verso chi la pensa diversamente, vale la pena di analizzare alcuni elementi del modo di comunicare nell’arena pubblica attuale.

È da tempo sotto gli occhi di tutti il fatto che la depressione economica cominciata nel primo decennio del III millennio si è trasformata in una crisi dei sistemi politici democratici basati sull’alternanza di due partiti o poli (conservatori e socialisti, centro-destra e centro-sinistra), così come essa si era andata strutturando in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Non solo negli stati più fragili, ma persino nei paesi reputati più solidi e, sino a poco tempo fa, ritenuti a prova di bomba, come la Francia, la Gran Bretagna e la Spagna, sono emerse forze in grado di destrutturare il sistema. In questo contesto si comincia a riflettere circa le caratteristiche e le forme della comunicazione in tempo di “rivolgimenti” di cui non s’intravede la fine, né il punto d’approdo.

Ci ha provato, fra gli altri, Pier Luigi Battista in un articolo dedicato al trionfo della post-verità. Egli ha osservato come al fact-checking - la verifica dell’aderenza alla realtà delle dichiarazioni dei politici - sia subentrato un insidioso meccanismo di post-verità: «il consenso di massa è sempre più incardinato su informazioni non veritiere, se non deliberatamente falsate, e che però vengono considerate vere malgrado la loro dimostrabile infondatezza». All’origine di questo meccanismo psicologico e politico vi sarebbe il fatto che «si vuole credere in una verità alternativa a quella ufficiale». Cosa che, grazie alla quantità immensa di informazioni disponibili nella Rete, oggi è alla portata di ciascuno. L’unico modo per arginare questa sfida ai mass-media, secondo Battista, è moltiplicare gli «sforzi di accuratezza nel racconto dei fatti».

La questione è forse più complessa di quanto sembri. Il rapporto tra la verità e il suo uso pubblico appartiene naturalmente alla sfera dell’antropologia politica sin da quando nacquero le società umane organizzate. Se poi guardiamo alla storia europea, la faziosità del linguaggio nella lotta politica non è certo una novità. Basti pensare a Dante che, nella Commedia, mise in bocca a San Pietro la definizione di papa Bonifacio VIII, l’arci-nemico del poeta fiorentino, quale un usurpatore che «fatt’ha del cimitero mio cloaca/ del sangue e de la puzza» (Paradiso, XXVII, 22-26). Saltando attraverso i secoli, possiamo prendere ad esempio l’Inghilterra del 1640, in cui, nel contesto del conflitto politico tra le mire assolutistiche del sovrano Carlo I Stuart e la Camera dei Comuni - che sarebbe di lì a poco sfociato in guerra civile - divenne comune l’espressione “partito dell’Anticristo” per definire i sostenitori della corona da parte degli infervorati predicatori calvinisti, sostenitori della causa parlamentare.

Era quella un’epoca di conflitti ideologici radicali che avevano il loro epicentro nella visione religiosa della realtà. Una delle giustificazioni della violenza religiosa tra cristiani era data dal famosissimo passo del vangelo di Matteo che recita: «E se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala e gettala via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geenna» (Matteo, 5: 30). Lo «scandalo», ossia il rifiuto di una parte della comunità dei credenti di aderire a ciò che era ritenuto la Verità, per ciascuna delle parti in causa, autorizzava l’eliminazione fisica di coloro i quali aderivano a un’altra confessione religiosa cristiana. L’interpretazione letterale del testo sacro era allora normale e in grado di scatenare violenze sconvolgenti.

È interessante notare che Voltaire, nel Dizionario filosofico (1764), alla voce Amicizia, scrisse che «i malvagi non possono avere che dei complici; […] le persone interessate, dei soci; i politici si circondano di partigiani faziosi». La dimensione faziosa della vita pubblica era quindi ben presente ai nostri antenati. Tuttavia in passato era legata a fasi di radicalizzazione ideologica e religiosa e a mezzi di comunicazione, come la stampa e le immagini, che solo una minoranza di persone era in grado di padroneggiare. Nel XX secolo letteratura, cinema, radio e televisione hanno reso la comunicazione partigiana straordinariamente pervasiva nella società di massa. Un recente volume di Stefano Pivato (Favole e politica. Pinocchio, Cappuccetto rosso e la guerra fredda, Il Mulino, 2015) analizza in maniera assai brillante una serie di luoghi comuni della comunicazione politica in Italia nei decenni del confronto tra comunismo e anti-comunismo tra Madonne pellegrine che invitavano a votare Democrazia Cristiana e feroci Cosacchi pronti ad abbeverare i loro cavalli nelle fontane di Piazza San Pietro. Si trattava però di un’epoca in cui, nonostante la durezza dello scontro, operavano attori politici, economici, sociali e religiosi in grado di controllare e filtrare il linguaggio dei mass-media. Oggi invece le affermazioni più faziose, assurde, bislacche e manifestamente false trovano larga diffusione attraverso le pagine del web e dei social network. Se ascoltiamo un dibattito alla radio o in televisione, sorge spontanea l’impressione che i discorsi prodotti dalla faziosità siano diventati più reali della realtà stessa (la “post-verità”).

Di fronte a tutto questo è facile cadere nell’errore di lodare il bel tempo antico in cui tutto era più felpato e le sciocchezze non avevano massiccia circolazione. Infatti da sempre la politica genera discorsi o, come si usa dire oggi, narrazioni della realtà, allo scopo di spingere le persone a determinate scelte. Il fatto che il tasso di veridicità di tali narrazioni sia sempre stato generalmente modesto non ha mai impedito che esse avessero un grande impatto sulla realtà. Basti ricordare un episodio della Rivoluzione francese: le voci di un complotto realista per abbattere l’Assemblea Nazionale, messe in giro dai nemici della corona, contribuirono a spingere Luigi XVI a tentare la fuga di Varennes (giugno 1791), che divenne, a sua volta, la prova della veridicità del tradimento del re e del suo complotto contro la Francia!

Insomma non dobbiamo preoccuparci della faziosità della comunicazione, in quanto non si dà comunicazione politica senza forme e contenuti che della verità fanno un uso disinvolto, ma della presenza di anticorpi nella società. Che possono giungere solo dalla cultura e dall’educazione, le uniche in grado di formare cittadini dotati di senso critico e che non si facciano abbindolare dalle favole della politica ai tempi della Rete.

In fondo, come afferma un altro aforisma di Churchill, «la verità è incontrovertibile. La malizia può attaccarla, l’ignoranza può deriderla, ma alla fine essa è ancora lì». Detto da uno degli uomini che ebbero un ruolo determinante nella sconfitta del nazismo e del fascismo, forse è il caso di crederci.

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