Lo scorso 10 marzo è stato approvato dalla Camera dei deputati il disegno di legge recante «Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita». Si tratta di un testo risultante dall’unificazione di un disegno di legge popolare e di più disegni di legge di iniziativa di diversi deputati, che è stato trasmesso al Senato dove, indicato col n. 2553, attende ora di essere calendarizzato per la discussione.

In materia di fine vita il dibattito italiano si connota per la molteplicità dei temi recati con sé, che rischiano di formare un groviglio difficile da districare. A venire intrecciandosi sono invero diversi tipi di complessità, che vedono agitarsi la difficile delimitazione del diritto di vivere dignitosamente – in gioco nel bilanciamento richiesto per disciplinare il fine vita – entro una cornice di questioni istituzionali altrettanto difficili, che vanno dal rapporto tra Corte costituzionale e Parlamento al tema dell’ammissibilità dei quesiti referendari.

Ecco dunque l’esigenza di ricostruire con ordine tale cornice.

In primo luogo, occorre allora rivolgere l’attenzione alla disciplina attualmente vigente. Essa è contenuta nella legge n. 219 del 2017, che ha sostanzialmente recepito gli orientamenti giurisprudenziali elaborati dalla Corte di cassazione a partire dai noti casi Welby ed Englaro. È grazie ad essi che invero è venuta consolidandosi l’interpretazione secondo la quale a ciascuno spetta il fondamentale diritto di scegliere se e come curarsi, che include anche quello di rifiutare le cure, sebbene indispensabili alla sopravvivenza. È quanto si ricava dall’art. 32 della Costituzione, che vieta, al secondo comma, i trattamenti sanitari obbligatori a meno che questi non siano legislativamente previsti. Dunque, con la legge n. 219 del 2017, il legislatore riconosce a ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza. E prevede, a garanzia della persona, che l’esercizio di tale diritto avvenga attraverso l’interlocuzione necessaria del medico, nell’ambito della relazione di cura e di fiducia tra medico e paziente.

Sennonché, tale disciplina nulla prevede per i casi in cui un soggetto, che versi in condizioni di sofferenza tali da indurlo a determinarsi alla morte, abbia bisogno di un contegno attivo e non della semplice interruzione delle cure per dare corso alla sua volontà. Un contegno che, secondo la legge penale italiana, si configura come un reato di aiuto al suicidio. Da ciò il noto caso Cappato, che ha posto all’attenzione della Corte costituzionale l’art. 580 del codice penale. Questa norma, in particolare, punisce l’istigazione e l’aiuto al suicidio. E, nel prevedere la medesima pena per entrambe le condotte, non precisa quali elementi siano necessari per ravvisare la sussistenza dell’aiuto al suicidio. Da ciò la tendenza della giurisprudenza a incriminare tutti gli atti materiali che, secondo l’accertamento causalistico, consentano di individuare un nesso di condizionamento tra la condotta di aiuto del terzo e l’evento morte del suicida.

La Corte costituzionale afferma la sicura conformità a Costituzione dell’intento perseguito dall’art. 580, che protegge la persona da decisioni in suo danno creandole intorno una “cintura protettiva”, inibendo ai terzi di cooperare in qualsiasi modo con lei. Allo stesso tempo, tuttavia, la Corte osserva che vi sono oggi situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta. Ricordiamo che il codice penale italiano è del 1930, momento storico in cui il legislatore non avrebbe potuto tenere in considerazione i casi in cui il paziente, grazie ai progressi della scienza medica e della tecnologia, è strappato alla morte ma rimane in vita in condizioni estremamente compromesse.

Perciò occorre aggiornare la disciplina, escludendo dall’area di applicazione dell’art. 580 del codice penale le situazioni in cui «il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli».

È evidente però che un intervento di questo tipo spetta al legislatore. Per questo la decisione della Corte costituzionale si articola in due pronunce. In un primo momento, coniando il nuovo strumento decisorio dell’incostituzionalità differita, la Corte sospende il processo innanzi a essa pendente dando un tempo al Parlamento per intervenire a correzione dell’illegittimità rilevata (ordinanza n. 207 del 2018), suggerendogli di operare, oltre che sull’art. 580, sulla legge n. 219 del 2017. Ciò per compendiare in un unico testo la disciplina. Anche per l’aiuto al suicidio la non punibilità della condotta deve invero collocarsi nel solo ambito dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente. Il Parlamento, tuttavia, non è intervenuto nel tempo indicato dalla Corte, che dunque ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 580 nei termini prospettati (sentenza n. 242 del 2019), con l’effetto pratico di sottrarre alla punibilità i casi riconducibili a quell’elenco.

Si tratta di un intervento di supplenza indotto dal silenzio legislativo. Ma possiamo ritenerlo soddisfacente in un’ottica di sistema? La risposta è negativa. Occorre anzi considerare il rischio che questi interventi suppletivi finiscano col sancire diritti privi di una concreta azionabilità, senza una normativa che ne disciplini le modalità di esercizio.

Attraverso questa prospettiva di osservazione, conviene guardare anche la vicenda del quesito referendario sull’omicidio del consenziente. Nella perdurante inazione del Parlamento, che non riesce a trovare una composizione di vedute su una questione così delicata, l’avvertita esigenza di una disciplina si è tradotta nella richiesta di referendum abrogativo sull’art. 579 del codice penale, che punisce l’omicidio anche se la persona uccisa abbia dato il proprio consenso all’omicida. Si è quindi tentato un passo in più. Con la vittoria del sì, la normativa di risulta avrebbe depenalizzato l’omicidio del consenziente salvi i casi di: 1) minore età; 2) infermità di mente o condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti; 3) consenso dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno.

Ecco il motivo per cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’inammissibilità del quesito (sentenza n. 50 del 2022). Ad essere in gioco non era la circoscritta area di situazioni individuate nel caso Cappato, ma il diritto alla vita, un valore che – dice la Corte – si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona e che postula il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire.

Non è dunque un referendum lo strumento più idoneo per l’avvertita esigenza di una disciplina del fine vita, né una sentenza della Corte costituzionale. Solo un intervento legislativo – che la Corte tenta di sollecitare da anni, utilizzando i suoi strumenti nel modo più collaborativo possibile col Parlamento – è in grado di risolvere le questioni ancora aperte. Perciò il disegno di legge che aspetta di essere discusso in Senato è un’occasione preziosa. Sebbene migliorabile in molti aspetti, soprattutto quello relativo alla lunga e complessa procedura prevista dall’art. 5, molto può essere ottenuto con lo strumento degli emendamenti, su cui vale la pena di riflettere in tempi solleciti, soprattutto in considerazione del poco tempo che resta alla XVIII Legislatura.

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