Gary Lineker è una leggenda del calcio inglese (e anche l’autore di uno tra i più brillanti aforismi mai immaginati sul calcio: «22 uomini rincorrono un pallone per 90 minuti, e alla fine la Germania vince»). Dopo essere stato il centravanti della squadra nazionale del suo Paese e aver realizzato 10 gol nei Mondiali del 1986 e del 1990, diventando uno dei calciatori più prolifici in questa competizione, è diventato un apprezzato commentatore sportivo per la BBC. Lineker ha inoltre quasi 9 milioni di follower su Twitter, un patrimonio di notorietà che certifica la rilevanza della sua voce pubblica. Il servizio pubblico del suo Paese gli garantisce un compenso annuo di 1,35 milioni di sterline.
La BBC, alcuni anni fa, ha introdotto una ‘social media policy’, una direttiva interna che dovrebbe servire proprio a regolare il comportamento pubblico dei suoi dipendenti e collaboratori, in particolare a proposito della manifestazione delle opinioni personali. L’obiettivo di questo genere di documenti, assai diffuso nelle grandi aziende e ancor di più nei principali gruppi editoriali del mondo, è provare a evitare controversie, soprattutto nei confronti della politica. Cosa succede infatti se, per esempio, una persona che lavora per un grande giornale attacca frontalmente chi governa il suo Paese? Quell’opinione può essere considerata solo a titolo personale o impegna anche l’azienda per cui lavora? La BBC, in linea con altre strategie analoghe e in nome della tanto decantata imparzialità, uno dei baluardi dell’informazione pubblica britannica, ha così chiesto alle persone che lavorano per l’azienda di non esprimere opinioni politiche per evitare che queste ultime «impegnassero» troppo il servizio pubblico.
Qualche giorno fa Lineker ha però criticato apertamente le nuove disposizioni sull’immigrazione approvate dal governo britannico, guidato dal conservatore Rishi Sunak, paragonando il linguaggio di quelle leggi a quello utilizzato dai nazisti negli anni Trenta del secolo scorso (e, a parere di chi scrive, non aveva tutti i torti). A quel punto, da prassi (e anche in seguito alle lamentele del governo) la BBC ha deciso di sospendere Lineker dal suo ruolo di opinionista per la violazione delle regole di condotta previste dalla social media policy.
In teoria tutto questo ‒ la creazione di una policy e la sua applicazione puntuale ‒ avrebbe dovuto proteggere la BBC da una crisi reputazionale, che poi è il vero obiettivo dell’introduzione di questo tipo di procedure interne. Invece, è accaduto l’esatto opposto. La Premier League, cioè l’organizzazione del campionato inglese (paragonabile alla Serie A italiana) ha bloccato le interviste agli allenatori e ai giocatori della trasmissione calcistica Match of the Day della BBC, di cui Lineker era protagonista. Altri ospiti della trasmissione, tra cui l’ex calciatore della nazionale Ian Wright, si sono rifiutati di partecipare dopo la sospensione di Lineker. A quel punto la BBC è stata obbligata a smentire sé stessa, e soprattutto un importante regolamento interno, richiamando Lineker al lavoro. Tim Davie, il direttore generale della BBC, tra i più ferventi sostenitori della necessità di introdurre una social media policy aziendale, ha inoltre affermato che la social media policy della BBC andrà rivista per cercare «un miglior bilanciamento tra imparzialità e diritto di espressione». Il primo ministro inglese Sunak si è rifiutato (per il momento) di rispondere a una domanda che gli è stata posta: «Ha ancora fiducia nel direttore generale della BBC?».
Questa vicenda, oltre a rappresentare un caso da manuale (al contrario) sulla gestione della reputazione aziendale, ripropone antichi e mai risolti dilemmi. Fino a che punto si può pensare di poter disporre delle opinioni dei propri dipendenti su questioni politiche, fino addirittura a provare a censurarle preventivamente? Perché la politica non vuole comprendere che un’opinione personale, pur autorevole, non coincide necessariamente con la linea editoriale del gruppo editoriale o dell’azienda per cui quella persona lavora? E soprattutto: l’imparzialità, nell’informazione, esiste davvero o comunque è davvero un obiettivo auspicabile, soprattutto in tempi complessi come quelli che stiamo vivendo?