04 ottobre 2017

Gestazione per altri: dono o sfruttamento?

Maternità surrogata. Gestazione d’appoggio. Utero in affitto. La mancanza di accordo su come definire la GPA – acronimo di Gestazione Per Altri – ben descrive l’asprezza del dibattito sulla pratica di quelle donne che provvedono alla gestazione e al parto per conto di una persona o di una coppia sterile, con l’impegno di consegnare il nascituro ai propri committenti.

Il tema è particolarmente delicato perché va a toccare le aree psicologiche fondanti la nostra identità: la maternità, il corpo delle donne. Le posizioni sono fortemente polarizzate: se da un lato si vuole affermare il diritto di trasmettere il proprio patrimonio genetico e vivere l’esperienza della genitorialità, dall’altro non si intende abdicare al diritto dei neonati di svilupparsi in continuità emotiva e relazionale dal momento in cui vengono immaginati a quello in cui vengono concepiti, messi al mondo e cresciuti. C’è chi parla in merito di generosità, altruismo e dono; chi invece di sfruttamento, prostituzione o biocapitalismo.

In Italia il dibattito sulla liceità della gestazione per altri è divampato nel momento storico – primavera 2016 – in cui si andava verso l’approvazione del disegno di legge sulle unioni civili, con l’introduzione poi stralciata della stepchild adoption, a volte confusa con la GPA. In quei giorni i media avevano dedicato rilevanza alla vicenda dell’ex governatore della regione Puglia Nichi Vendola e del suo compagno Eddy Testa, che avevano fatto ricorso a una donna americana, Thelma, per la procreazione e la gestazione del loro figlio Tobia. Inutile dire che le argomentazioni a favore o contrarie sono state fortemente connotate dalle posizioni politiche.

La sostanziale mancanza di letteratura scientifica ha contribuito al disorientamento dell’opinione pubblica. Non esistono (ancora) ricerche sullo sviluppo adolescenziale e adulto dei figli della GPA, mentre le indagini sulle madri sono principalmente di tipo ginecologico e riguardano le loro condizioni di salute. In Italia è prevista per dicembre 2017 la pubblicazione del manuale Psicosociologia della genitorialità. Il viaggio verso l’esperienza del divenire madre e padre (ed. Golem), curato dalla psicoterapeuta Simona Adelaide Martini: il volume, primo nel nostro panorama editoriale, riesce a chiarire le implicazioni psicosociologiche, etiche e giuridiche della pratica.

A cominciare dalle diverse tipologie di maternità surrogata, che variano a seconda della provenienza dell’ovulo e dello spermatozoo dal cui incontro si costituisce l’embrione. Questo può essere il risultato dell’unione  tra i gameti maschili di un membro della coppia e l’ovulo della gestante stessa; ma la procreazione può avvenire anche grazie a spermatozoi di un terzo donatore. La gestante può anche essere priva di legame genetico con il nascituro, nel caso in cui le sia stato impiantato un ovulo fecondato dalla coppia richiedente.

Ci troviamo davanti a una paradossale famiglia allargata fin dal concepimento: tra madri e padri, il legame rischia di essere perduto una volta consegnato il neonato al committente. Non a caso il neuropsichiatra Francesco Montecchi afferma: «la madre non comunica al figlio solo le proprie esperienze personali, ma svolge anche un ruolo di mediazione tra il feto e il mondo esterno. La comunicazione tra madre e figlio è permeata dall’intreccio delle storie personali dei genitori, dal momento evolutivo attraversato dalla gestante e dai rapporti che questa intrattiene con il tessuto sociale cui appartiene». La cesura di tali esperienze e la loro eventuale ristrutturazione è l’aspetto più problematico evidenziato finora dalla letteratura psicologica.

Ma la pratica risulta complessa anche nei suoi profili giuridici: permessa con rigide restrizioni in Grecia e nel Regno Unito – imprescindibile la gratuità della prestazione offerta dalla donna – è invece liberalizzata in California, dove sono sorti studi legali specializzati nell’intermediazione tra committenti e aspiranti gestanti. In Italia la trascrizione di tali atti di nascita è oggetto di pronunce giurisprudenziali di segno opposto: da un lato l’ammissione della pratica da parte di Stati membri dell’Unione Europea la identifica come valore condiviso dalla comunità internazionale e porta alla sua ricezione; altre sentenze hanno invece affermato il divieto di trascrizione nel caso non ci sia legame biologico. Ma la vera incertezza rimane quella legata all’etica che, secondo le parole di Umberto Galimberti, di fronte alla tecnologia «celebra la propria impotenza».


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