31 marzo 2017

Gli psicologi e quel complicato rapporto con il denaro

Irvin Yalom è uno scrittore di culto per chiunque si sia trovato su un lettino psicoanalitico o una poltrona terapeutica, compresi i fortunati che si son ritrovati a praticare la sua professione. Ebreo americano, Yalom è psicoterapeuta, docente di psichiatria a Stanford, autore di numerosi saggi e di cinque fortunati romanzi sul tema; l’ultimo pubblicato in Italia da Neri Pozza è Sul lettino di Freud, incongrua traduzione a favore di marketing – immarcescibile l’icona del dottor Sigmund – di Lying on the couch. Un romanzo minore che ha atteso nove anni prima della traduzione del 2015, attraversato da sottile ironia, luminosa intelligenza e un personaggio che lascia il segno: Marshal Streider è uno psicoanalista di San Francisco ossessionato dal denaro, sempre intento a snocciolare i guadagni quotidiani fino a quando un finto paziente, sfruttandone l’avidità, non lo gabba con una micidiale doppia truffa. Ma i professionisti psi sanno più di chiunque altro che i mali non arrivano solo per nuocere: il dottor Streider in supervisione otterrà un nuovo sguardo al suo passato, fatto di miseria e di un padre che si ingegnava per pochi spiccioli, e riuscirà a riappacificarsi con la moglie esausta di tanta taccagneria. Lieto fine, dunque, per l’immaginario psichiatra californiano: ma che dire del rapporto col denaro degli psicologi nostrani, alle prese con precarietà, iperconcorrenza sleale delle pseudoprofessioni affini e mille lavori accessori per coronare il proprio sogno professionale? Si va dal neolaureato che per le consulenze in farmacia (nuova frontiera già tramontata) arriva a offrire un contributo per l’incomodo, a chi fomenta la caccia alle streghe per chi richiede un onorario superiore alla quota di povertà; ma anche lo psichiatra della TV che sbandiera la sua berlusconiana dichiarazione dei redditi come fosse una medaglia. Segnali di un rapporto complicato: quanti limpidi professionisti esitano come pivellini al momento di richiedere l’onorario? La fantasia (con vantaggio secondario annesso) di alcuni pazienti, per cui se lo psicologo fosse davvero interessato alle loro vicende non chiederebbe denaro per il suo intervento, riesce ancora ad insinuarsi. Malgrado già il padre della psicoanalisi chiarisse la buona prassi del “noleggio del tempo”: la dimensione economica come necessaria nella dinamica transferale, la demolizione delle facili resistenze con l’obbligo di versare la quota anche in caso di assenza. Ogni psicologo porta in dote delle difficoltà ad affrontare determinati argomenti: si può esitare sui lutti, sulla sessualità, sulle dipendenze patologiche e anche sul denaro, che porta con sé significati relazionali affatto banali. Ma gli psicologi, compresi i molti che operano al di fuori del contesto della cura, restano soggetti integrati nella società, svolgono un lavoro riconosciuto e pagano le tasse: giusto che guadagnino in misura proporzionale all’entità della loro formazione e all’efficacia del loro intervento, certo difficilmente misurabile. In epoca di liberalizzazione delle tariffe, la richiesta di onorari troppo alti o troppo bassi reca significati – possibile narcisismo o scarsa stima di sé – difficili da gestire nell’alleanza professionale o addirittura controproducenti. E insieme si affacciano interrogativi legati alle differenze di genere: come mai in una professione prettamente femminile sono sempre gli uomini a fare la parte del leone, come entrate annuali e ruoli apicali? Varrebbe la pena di approfondire il tema.  


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