Il rider che pedala al ritmo dettato da un algoritmo è solo una delle tante forme della rivoluzione che ha cambiato il lavoro dopo il Novecento; quella forse più facile da vedere a ogni pizza o spesa consegnata. Il rider lavora da solo, è pagato a consegna, il suo guadagno è più o meno basso a seconda della sua velocità, chi lo comanda è virtuale quanto indiscutibile. Un abisso lo separa dalla figura di lavoratore prevalente nel secolo scorso: quest’ultimo lavorava in gruppo, con paga oraria tarata su una professionalità conquistata; di fronte a sé un padrone in carne e ossa o un capo umano quanto lui, cui obbedire o da contestare. La distanza tra vecchi e nuovi lavoratori – che pur convivono nella nostra realtà – sconvolge gli orizzonti sociali e politici, mette in discussione i valori su cui era stata costruita la piramide dei diritti e la giurisprudenza del lavoro, manda in crisi il ruolo delle organizzazioni di rappresentanza, quelle dei lavoratori come quelle degli imprenditori; fino a mettere in discussione il compromesso sociale su cui si sono fondate le democrazie occidentali nel secolo scorso.

La rivoluzione non è stata improvvisa. È iniziata con il decentramento industriale alla fine degli anni Settanta, proseguita con le delocalizzazioni, esplosa con la globalizzazione dell’economia e ha conquistato il mondo con le piattaforme. Il crescente peso della finanza ne ha accentuato la radicalità, l’irruzione dell’informatica le ha dato corpo e gambe su cui marciare. Perché questa è la vera rivoluzione che ha sconvolto tutto. Permettendo una flessibilità dei processi produttivi mai conosciuta prima. Oggi si può produrre una merce o fornire un servizio gestendo centralmente da remoto un’organizzazione del lavoro sparsa ovunque nel mondo. Poi, semmai, è solo un problema di ‘mettere assieme i pezzi’, da risolvere con una logistica sempre meno ‘trasporto’ e sempre più ‘prodotto’. La prima conseguenza di questa rivoluzione è che il lavoro si è espanso ovunque, nello spazio e nel tempo, sul territorio e occupando potenzialmente tutto il tempo della vita.  Per un numero crescente di persone, il posto di lavoro ha un orizzonte sempre più individuale (fino a occupare le abitazioni di ciascuno), l’orario è talmente flessibile da essere spalmato sulle 24 ore della giornata (spesso senza più limiti precisi). Una parcellizzazione del mondo del lavoro accompagnata da quella legislativa e contrattuale che dovrebbe regolarlo.

È una proliferazione di condizioni e di percezioni diverse. Se un tempo il lavoro aggregava le persone su basi comuni su cui sono nati sindacati e sono stati costruiti diritti, oggi le divide collocandole in infinite caselle individuali che moltiplicano i punti di vista. Complicato, molto complicato ricondurre queste complessità ad alcuni elementi comuni fondanti di nuovi diritti altrettanto comuni. Anche perché, in tutto questo il lavoro è diventato una merce molto disponibile e perciò povera, debole. Dovunque nel mondo è cresciuta la quota dei ricavi destinata a profitti e rendita, mentre è diminuita quella che è andata ai redditi da lavoro dipendente. In Italia, negli ultimi trent’anni, i salari reali sono diminuiti (-2,9%). Una disoccupazione cronicizzata attorno al 10% – quella giovanile oltre il 25% – offre una buona disponibilità di mano d’opera e ne abbassa il costo: nasce la figura – inedita, se non andando ai tempi della prima rivoluzione industriale – del ‘lavoratore povero’, di chi pur avendo un’occupazione ha un reddito sotto la soglia di povertà. Nel nostro Paese i poveri assoluti sono oltre 5,5 milioni – più del doppio di dieci anni fa – e le famiglie operaie in povertà sono il 13% del totale.

Nella quarta rivoluzione industriale ancora in corso, la ricerca di diritti comuni del lavoro è diventata una questione ‘generale’, oltre la dimensione rivendicativa e contrattuale tipica delle iniziative sindacali. Il sindacato stesso tende a ‘politicizzarsi’ per dare risposte comuni ai problemi di un mondo del lavoro diviso ed evitarne una deriva individualistica. Non è un caso che di fronte all’instabilità occupazionale, al precariato e alla caduta del potere d’acquisto dei salari, per affrontare le disparità prodotte dal mercato e garantire un minimo di necessaria coesione sociale, in Europa come nel nostro Paese, la contrattazione sindacale non sia più considerata una garanzia erga omnes, che i diritti del lavoro finiscano in secondo piano rispetto a quelli di cittadinanza, a partire proprio dal terreno del reddito, un tempo esclusiva delle organizzazioni dei lavoratori. Una cesura storica e dagli esiti ignoti agli stessi protagonisti.

Immagine: Charles F. Quest, The Builders, 1934-35 circa. Crediti: Smithsonian American Art Museum, Washington, D.C.

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