Il mito del migrante malato e untore è presente in tutte le culture perché radicato nel nostro sistema nervoso, precisamente nell’amigdala, struttura profonda in cui dimorano impulsività, rabbia e sospetto: questa forma di narcisismo tribale si è rivelata nei secoli fondamentale nella lotta per la sopravvivenza. Il clan meglio conosciuto è quello che più facilmente ti proteggerà, ti darà da mangiare e terrà in vita; sconosciuti virus e batteri i contagi erano imputati alle persone di passaggio. Nel mondo moderno questa visione diventa più difficile da sostenere: nascono così giustificazioni più o meno creative, e la persona al di là del confine o del mare ora non è più intrinsecamente cattiva, solo portatrice di una specifica minaccia – contaminazione culturale e danno economico tra le altre più gettonate.

L’organizzazione mondiale della sanità è però chiara al riguardo: non c’è correlazione tra migrazione e aumento di patologie contagiose. Gli immigrati provenienti da paesi in via di sviluppo possiedono una salute sostanzialmente integra al loro arrivo in Italia. Questo dato è stato definito effetto migrante sano, ed è spiegato dall’autoselezione di chi decide di emigrare.

“La salute e la capacità di lavorare rappresentano le principali risorse di un migrante: generalmente chi ha il coraggio di partire è forte, giovane, con maggior spirito di iniziativa e maggiore stabilità psicologica”, afferma Marco Bacosi, medico gastroenterologo che negli ultimi cinque anni ha visitato per lo screening nei centri d’accoglienza di Roma e provincia oltre 6 mila migranti. “Questo patrimonio di salute viene tuttavia dilapidato in una finestra di 8-10 mesi a causa di diversi fattori di rischio: disagio psicologico, mancanza di reddito, degrado abitativo, compromissione dello stato nutrizionale”.

A causa di questi fattori di rischio i migranti presenti sul nostro territorio possono sviluppare patologie legate al degrado, le stesse degli autoctoni nelle medesime condizioni: tubercolosi (TBC), scabbia, pediculosi, malattie sessualmente trasmesse. Rispetto alla TBC si è effettivamente riscontrato un aumento dei casi nel nostro paese: la percentuale del numero dei casi nei migranti è passata da circa il 37% al 58% del totale dei casi notificati. Tuttavia, come ben osservato da Salute Internazionale, il numero dei casi di TBC nei migranti aumenta molto meno del loro incremento numerico. La condizione di immigrato rappresenta un fattore di rischio sia per la maggiore prevalenza di infezione latente in chi proviene da aree ad alta endemia, sia per le condizioni di vulnerabilità e di precarietà.

Anche l’incidenza dell’HIV è più elevata nei migranti (circa il quadruplo), ma viste le modalità peculiari di trasmissione – rapporti sessuali non protetti, scambio di siringhe, mancato utilizzo di dispositivi protettivi nel personale sanitario – non comporta rischi per l’accoglienza, pur tenendo presente la necessità di continuare le campagne informative sui comportamenti corretti avviate ormai da trent’anni.

E poi c’è l’Ebola, che aveva scatenato due anni fa un ingiustificato allarme di massa anche nel nostro paese: il temibile virus presenta un periodo di incubazione variabile tra 2 e 21 giorni, mentre l’intervallo tra insorgenza dei sintomi ed eventuale morte si aggira tra una e due settimane. Dati che si scontrano con la realtà del percorso migratorio: i viaggi dei migranti africani durano settimane o mesi con frequenti soste in Libia prima della tratta finale via mare, e dunque un soggetto contagiato arriverebbe alla pienezza dei sintomi molto prima di arrivare nel nostro paese. I soli casi di Ebola nel nostro paese sono stati a carico di operatori sanitari rientrati in aereo, e hanno trovato un’efficiente sistema di sicurezza sanitario che ha permesso di trarre tutti in salvo.

Insomma di contagioso e insidioso ci sono soprattutto i pregiudizi, simili a quelli che hanno accompagnato gli italiani in America e i meridionali nel nord Italia e nel centro Europa per tutto il Novecento.

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