Due settimane e spiccioli, ancora pochi giorni insomma ed entro il 12 aprile il dossier definitivo della candidatura dell’Italia a ospitare il Campionato europeo di calcio del 2032 sarà consegnato alla UEFA che poi, a settembre, assegnerà la manifestazione, unitamente a quella del 2028. Per quest’ultima hanno presentato il documento preliminare la Turchia e, in candidatura congiunta, Regno Unito e Repubblica d’Irlanda, mentre per il 2032, oltre a quella italiana, sarà presente di nuovo la proposta turca, e va segnalato che, a seguito del conflitto in Ucraina, la confederazione calcistica aveva rigettato la provocatoria proposta di candidatura della Russia, giunta meno di un mese dopo l’invasione.

Cosa ci sarà nel dossier? Definizione dell’aspetto organizzativo e logistico, prospettive e, soprattutto, garanzie, quelle che la UEFA pretende dal punto di vista politico ed è in questo senso che, lo scorso 8 marzo, in una risoluzione la VII Commissione Senato ha impegnato il governo a supportare la candidatura italiana a Euro 2032 e a fornire «il necessario supporto per il miglioramento delle infrastrutture sportive nell’ambito di progetti di rigenerazione urbana, senza consumo di nuovo territorio, anche attraverso la configurazione di strumenti che favoriscano lo stanziamento e/o il reperimento di idonee risorse finanziarie, pubbliche e private e individuando procedure che assicurano il completamento degli interventi nei tempi richiesti dalla UEFA, anche attraverso una centralizzazione e una semplificazione delle stesse procedure, mutuando modalità già adottate in occasione di progetti e/o eventi ritenuti di interesse nazionale». Vi sono, nel testo della risoluzione, elementi che chiariscono come non sarà un affare a costo zero per le casse statali («la configurazione di strumenti che favoriscano lo stanziamento e/o il reperimento di idonee risorse finanziarie, pubbliche e private») e che allo stesso modo sembrano volere utilizzare la candidatura all’Europeo per giustificare alcune modifiche del nuovo Codice degli appalti (quando si parla di «procedure che assicurano il completamento degli interventi nei tempi richiesti dalla UEFA») che sarà pubblicato nelle prossime settimane.

Ora, con anche i costi delle Olimpiadi invernali di Milano-Cortina 2026 in continuo aumento, va da sé che la memoria non possa non andare alla mangiatoia di Italia ’90, il Mondiale che ha anticipato Tangentopoli e ha visto il Paese inserire nel Bilancio di previsione 2015 le ultime rate dei mutui accesi allora, a seguito della legge n. 65/1987 (governo Craxi II), che regolava la realizzazione di nuovi impianti sportivi o la ristrutturazione di quelli esistenti. E che, peraltro, riuscì nell’intento di ristrutturare o creare ex novo strutture risultate obsolete già a lavori completati. Per non parlare, poi, delle opere a margine e della fiera dell’incompiuto che ne derivò. Di qui l’interesse nazionale sulla manifestazione, per il quale si è impegnato il governo. Ebbene, nel dossier preliminare sono presenti undici potenziali città sede delle partite (dovranno essere ridotte a dieci: una resterà fuori) e si tratta delle stesse di Italia ’90: Bari, Bologna, Cagliari, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino e Verona. L’eccezione è Udine, che ha uno stadio ristrutturato da poco, funzionale e moderno come pochi altri in Italia ma che può contare su una capienza di 25.000 posti, inferiore al minimo di 30.000 richiesto dall’UEFA. Una situazione piuttosto paradossale e che taglia fuori, perché considerati troppo piccoli, anche impianti come quelli di Bergamo e Reggio Emilia la cui proprietà (come per Udine e per lo Juventus Stadium di Torino, quest’ultimo ricostruito dal club bianconero sulle ceneri del Delle Alpi, uno dei più costosi di Italia ’90) non è pubblica, e non a caso. In lista, invece, compaiono stadi oggi inidonei ma che hanno ricevuto finanziamenti a pioggia per Italia ’90 e necessitano effettivamente di modifiche, peraltro in diversi casi approntate alla riduzione funzionale dei posti e alla copertura integrale, da Firenze (dove il patron della Fiorentina, Rocco Commisso, si era proposto di costruirlo uno stadio privato, ma dove bisognerà invece ristrutturare il Franchi con soldi pubblici) a Bologna, dove i progetti di riqualificazione del Dall’Ara prevedono la rimozione di quanto costruito per Italia ’90. E il resto? Tralasciando la questione San Siro, spiccano i casi di Cagliari (uno stadio nuovo costruito sull’area del Sant’Elia ristrutturato per il 1990 e oggi abbandonato, progettato per 25.000 posti ma che dovrebbe essere ampliato a 30.000, cosa possibile ma priva di senso, per entrare nella candidatura finale) e Bari, dove da anni si pensa a come sistemare il San Nicola progettato ai tempi da Renzo Piano.

«C’è solo una possibilità per provare a risolvere il problema degli stadi da Milano, Roma, Napoli: bisogna vincere la candidatura degli Europei perché così hai la certezza che per una data devi avere stadi pronti su certi parametri»: così il presidente del CONI, Giovanni Malagò, si è espresso in merito, confermando dal punto di vista dell’istituzione sportiva apicale la totale incapacità di avere una prospettiva progettuale laddove l’Italia è indietro da anni rispetto a quasi tutti i maggiori Paesi europei. A stretto giro gli ha risposto il ministro dello Sport, Andrea Abodi: «Sul tema stadi negli ultimi trent’anni siamo riusciti a fare poco, troppo poco, insopportabilmente. Le ragioni e le responsabilità ormai servono solo a fare tesoro dell’esperienza e a cambiare passo. Euro 2032 molto utile, ma non può essere indispensabile», ha scritto in un tweet che emenda politicamente le parole di Malagò e, in qualche modo, spiega che in fondo bisognerebbe essere capaci di migliorare le proprie strutture a prescindere dalla possibilità di ospitare un grande evento che, magari, altrove è una conseguenza di quanto fatto, mentre qui finisce per essere una conditio sine qua non per fare le cose. Un’attitudine che racconta una differenza di approccio abissale.

In tutto questo la FIGC sta lavorando in termini di lobby, avvicinandosi sempre di più al presidente della UEFA, Aleksander Čeferin, sulle cui posizioni il suo omologo Gabriele Gravina sembra appiattirsi subodorando la reale possibilità di ottenere l’Europeo. Čeferin verrà rieletto per il terzo mandato alla presidenza UEFA il prossimo 5 aprile: è l’unico candidato ma, nonostante questo, ha bisogno di rinsaldare alcuni particolari rapporti utili per il mantenimento del potere in un periodo per lui abbastanza critico ma segnato da una gestione muscolare, contestata da molti anche se non apertamente, della questione Superlega (in mano alla Corte di giustizia europea, che si esprimerà in questa primavera) e da evidenti problematiche in quella della sicurezza pubblica delle gare la cui organizzazione è in capo alla confederazione. In quest’ultimo caso sotto la lente c’è il capo della sicurezza, Zeljko Pavlica, ex poliziotto, suo amico fidato nonché testimone di nozze. Un rapporto indipendente commissionato dalla confederazione sugli incidenti a margine della finale di Champions League 2022 a Parigi ha stabilito le responsabilità della UEFA stessa, definendo «straordinaria» la circostanza che «nessuno abbia perso la vita». Ciò nonostante, non vi sono state dimissioni e, alcune settimane fa, quando il prefetto di Napoli vietò inizialmente la trasferta in città ai tifosi dell’Eintracht per la gara di Champions (gli ultras poi sarebbero arrivati e avrebbero causato numerosi incidenti scontrandosi con le forze dell’ordine), Čeferin aveva criticato la decisione minacciando future prese di posizione da parte della confederazione.

Il particolare do ut des tra FIGC e UEFA si scontrerà però, appunto, con gli obiettivi della Turchia, che più volte si è candidata per ospitare l’Europeo senza mai ottenere l’assegnazione, ma che oggi può contare su una posizione un po’ più forte, anche perché uno dei principali sponsor del calcio europeo è Turkish Airlines, la compagnia aerea per metà di proprietà statale che di fatto ha sostituito la russa Gazprom nel foraggiamento delle casse UEFA, e del resto il prossimo giugno Istanbul ospiterà finalmente la finale di Champions League saltata nel 2020 e 2021 a causa della pandemia. Il recente terremoto nel Sud-Est del Paese (che ha colpito anche Gaziantep, una delle previste città sede di gara) non pare avere modificato i piani, e va sottolineato come gli stadi proposti per la candidatura turca siano estremamente migliori e più moderni di quelli italiani. Non solo: laddove esiste un governo autocratico, le istituzioni calcistiche sanno che l’organizzazione procede più speditamente e, sebbene si tratti di una considerazione grave, hanno dimostrato di saper facilmente convivere con le critiche sul piano etico. Motivi che bastano a considerare la Turchia un rivale non semplice, più per l’Italia nel 2032 che per Regno Unito e Repubblica d’Irlanda nel 2028, ed è per questo che, almeno fino a settembre, politicamente c’è da attendersi una FIGC che mai e poi mai si discosterà dai desiderata della UEFA in merito al modo in cui si modificherà il governo del calcio del futuro.

Immagine: Veduta aerea dello stadio Renato Dall’Ara, Bologna (settembre 2019). Crediti: Aleksandr Medvedkov / Shutterstock.com

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