Esiste un romanzo di Osvaldo Soriano, Un’ombra ben presto sarai, nel quale in alcuni frangenti i protagonisti, primo fra tutti l’iconico Coluccini, in mancanza d’altro, a carte si giocano i ricordi. Ecco, se qualcuno di svegliasse domani nel Coluccini di cui sopra, sicuramente avrebbe almeno un ricordo che lo lega a Valentino Rossi da mettere sul piatto per un’ultima mano. Memorie di trent’anni di carriera, una fama planetaria, ventisei stagioni di Motomondiale, nove titoli iridati e un giro d’onore durato tre mesi, da quel giorno di agosto in cui annunciò l’intenzione di ritirarsi al termine del Mondiale, all’ultimo giro di pista effettivo: Valencia, 14 novembre 2021, all’ora di pranzo e col sole alto, novemilatrecentosessantadue giorni dalla prima tornata di qualifica (Malesia 1996) e quattrocentotrentatré gare dopo quella del debutto. I numeri, sotto forma di lettere, fanno ancora più effetto, e oltre a quelli appena citati potrebbero esserne elencati ancora una dozzina, solo per rimanere ai record di una carriera straordinaria.

Ma non possono essere solamente le cifre a dare il senso dell’impronta lasciata nello sport da Rossi, al punto che ora, sceso dalla moto, anche tentare di collocarlo in una particolare posizione della hall of fame del motociclismo appare un inutile esercizio tetratricotomico. Epoche diverse, regolamenti totalmente differenti, figurarsi le tecnologie: vale tutto, e quando vale tutto non conta nulla. Piuttosto quella di Valentino è la storia di una permanenza mediatica impressionante, proiettata su quattro decenni a prescindere dai media e dai risultati, rivoluzionando paradigmi apparentemente invariabili e allo stesso tempo utilizzando topos classici e perfettamente adatti a quel pubblico, peraltro del tutto trasversale, che ne ha decretato il successo e lo ha imposto nell’immaginario collettivo.

Nel suo caso, ad esempio, non si può sostenere che sia lo sport ad avere portato alla ribalta il personaggio, ma esattamente l’opposto: sino alla sua comparsa in pista, con quel volto da preadolescente e le influenze dialettali, il motociclismo era disciplina per eletti, quando non per smanettoni; del resto sulle prime tute di Valentino, prima delle multinazionali, comparivano marchi notissimi nel settore dell’elaborazione dei motori, vera e propria educazione sentimentale per alcune generazioni. Giacomo Agostini era riuscito, ai suoi tempi, a patinarlo di glamour ‒ aiutato dal talento, dalle vittorie, dal bell’aspetto e da un periodo storico propizio ‒, ma Rossi, vent’anni più tardi, lo ha portato nelle case di tutti, sfruttando una comunicatività innata che si è avvalsa della capacità di penetrazione di un sistema di valori pane e salame. La famiglia, gli amici, l’agonismo, il divertimento fatto cifra stilistica e persino l’indole autoassolutoria (perché sbagliare è umano, ma dare la colpa ad altri anche di più; non a caso, fra i nomignoli affibbiatigli dai detrattori c’è quello di “Lamentino”): un’assiologia precisa portata avanti con costanza, che si è adeguata alle modifiche del mondo esterno, al passare delle stagioni della sua vita ‒ non è irrilevante concentrarsi sul progredire dei soprannomi scelti dal pilota: Rossifumi, Valentinik, il Dottore ‒ e al cambiamento dei rivali senza venire mai stravolta. Fenomeno trasversale, abile come nessuno ‒ come lui, forse, Messi e Cristiano Ronaldo, ma il calcio non è il motociclismo ‒ ad avere tifosi sparsi in tutti i continenti: «Che le mie gare le guardino le nonne di 80 anni e i bambini è la cosa più bella», ha sostenuto nell’ultima conferenza stampa da pilota, ed è effettivamente il segreto del suo successo.

In questo modo, con la sua irriverenza e la sua interpretazione del mestiere oltre le gare, Rossi è stato virale prima ancora che nascessero i social e ne ha anticipato le dinamiche di sviluppo dialettico in tema di tifo, basti pensare alle rivalità irriducibili e manichee, di qua o di là: quella con Max Biaggi, ad esempio, quasi uno scontro antropologico che, in termini mediatici, ha arricchito entrambi, e oggi ha un finale alla Casablanca ‒ «Louis, I think this is the beginning of a beautiful friendship» ‒ come si confà ai nemici dello sport dopo il ritiro. Magari ci metterà più tempo con Marc Marquez, al quale imputa il secondo posto nel Mondiale 2015, ma è un destino segnato.

Dopo tutto, Valentino ha gareggiato nel suo lungo percorso con piloti di quasi vent’anni più giovani di lui e con altri che sarebbero nati vent’anni dopo di lui, trionfando a lungo e poi restando a dettare l’agenda anche quando ha smesso di vincere. Non è un dettaglio, ma un segno di grandezza del tutto coerente con il sistema di valori di cui sopra: nell’ultimo decennio di carriera, senza titoli e con risultati in calando ‒ ma è rimasto realmente competitivo almeno sino al 2017 ‒ non avrebbe avuto senso vederlo smettere, come in tanti auspicavano bollandolo come patetico. Concetto semplice: è la sua vita, si diverte, fa ciò che più gli piace perché è sempre meglio che lavorare. Chi non farebbe a cambio? Sindrome da Peter Pan, gli hanno detto, come fosse sbagliato, dimenticando però che nel frattempo a inondare il Motomondiale di nuovi talenti era stata proprio la Academy da lui formata, il team VR46 che continuerà a portare in giro il suo brand ‒ ricchissimo ‒ sui circuiti delle due ruote, mentre lui si dedicherà alle quattro, resterà nel calderone mediatico e sarà verosimilmente protagonista di ulteriori libri, documentari, serie. Agiografie, insomma, un mieloso storytelling ex post per un eterno ragazzo che un santo non è mai stato, che ha corso per sé ma, per eterogenesi dei fini, è diventato un patrimonio dello sport, regalando con la sua impressionante longevità infiniti ricordi ad appassionati e non. E per giocarseli, tutti quei ricordi, chissà quante mani servirebbero.

Immagine: Valentino Rossi alla sua ultima conferenza stampa durante la MotoGP Motul di Valencia, Spagna (11 novembre 2021). Crediti: Rainer Herhaus / Shutterstock.com

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