Quando a fine ottobre il Comitato olimpico internazionale (CIO) ha aperto al riconoscimento del videogioco come sport e, di conseguenza, alla sua possibile futura inclusione nei giochi olimpici, si è subito scatenato un acceso dibattito. È corretto qualificare il videogioco come sport? Il CIO ha ovviamente puntualizzato che è necessario che siano rispettati i valori olimpici, che dovranno essere messi a punto sistemi di tutela dal doping e che ci si dovrà battere contro le scommesse, ma ha anche sottolineato che i cyber-atleti si allenano con un’intensità paragonabile a quella degli sportivi tradizionali. A prescindere dall’importanza di questo storico riconoscimento, seppur in itinere, il dibattito si è ovviamente esteso alla definizione di sport. Se il videogioco è dentro, perché tenere fuori gli scacchi? Se invece è fuori, perché non escludere anche la carabina? Punti di vista, parti di un dialogare critico che, in ultima analisi, è sempre benefico. Il punto, però, credo sia un altro. Tornare a interrogarsi sull’identità del videogioco, questione oscura che da decenni tormenta le menti di chi, a diverso titolo, si interessa di questo settore.

Il videogioco, che affonda le sue origini tra la fine degli anni Cinquanta (Tennis For Two, 1958) e gli anni Sessanta (Spacewar!, 1962), nasce come semplice esperimento, come creazione rivoluzionaria che coniuga conoscenze tecniche informatiche con idee, spunti creativi e, talora, embrionali proto-storie. Da qui la primissima riflessione: non è dato un videogioco senza che ci sia un computer a consentirne l’esecuzione, poiché un electronic game vede nel codice informatico i mattoncini del suo DNA. Si faccia attenzione, però: questo fa forse del videogioco un oggetto di tecnologia? Niente affatto: vorrebbe dire scambiare il contenuto per il contenitore, quasi come se il film fosse la pellicola sulla quale è impresso (oggi non è neppure necessario, con il cinema ormai passato al digitale) o il romanzo fosse la carta vergata con l’inchiostro sulla quale è scritto (stesso discorso: gli ebook dimostrano il contrario). Ebbene sì, il videogioco attiene alla sfera umanistica: idee veicolate da codice, come l’arte di uno scultore usa il marmo per prendere forma. Quando un autore ha qualcosa nel suo animo che vuole esprimere, sceglie il mezzo più adatto, che sente a sé più vicino. Ebbene, ormai tra questi mezzi c’è anche il videogioco, usato per dar vita a forme interattive astratte, prive di un elemento narrativo (pensiamo agli incastri geometrici di un Tetris) o a veri e propri racconti, che possono essere semplici, infantili o fiabeschi, ma anche adulti, complessi e dolorosi. Una coppia di genitori, ad esempio, ha scelto il videogioco come modalità espressiva per condividere con il mondo, in maniera interattiva, la drammatica esperienza della perdita del loro bambino, malato di cancro (That Dragon, Cancer).

Questo ci porta a una nuova imprescindibile riflessione. Se il videogioco tratta tematiche di questo genere, forse non è necessariamente un “gioco”. Non si gioca con un bambino malato terminale, né si potrebbe “giocare” nel rivivere i grandi drammi della Storia. Diciamo che piuttosto si vivono in modo interattivo delle storie, che possono essere profonde, drammatiche, disperatamente tragiche, oltre che fantastiche, spassose o di pura evasione. Non è insolito. In letteratura è lo stesso, come nel cinema o in ogni altra manifestazione artistica. Che la letteratura sia arte è indiscusso, ma ciò non significa che ogni saggio o romanzo sia un’opera d’arte: ci sono i capolavori, le pietre miliari e i grandi testi, come la letteratura spazzatura. Il videogioco non differisce, ma è fondamentale rendersi conto del superamento semantico del termine: ciò che è nato come esperimento e che poi è diventato un prodotto di intrattenimento, un giocattolo elettronico (pensiamo alle primissime console Magnavox Odyssey o Atari), è presto evoluto in un medium, un linguaggio, una nuova forma di veicolazione culturale e artistica del pensiero umano. Il videogioco, insomma, si è reso un’opera multimediale interattiva o, se preferite, un’esperienza interattiva, che a tutti gli effetti si è conquistata il titolo di arte e che a buon diritto è entrata nelle università, nelle biblioteche, nei musei e in tutti gli altri templi della cultura.

Il fenomeno dello sport elettronico, comunemente detto eSport, ha però impresso una sterzata verso territori totalmente differenti, dove il videogioco si dissocia dalle stesse ambientazioni che mostra e dalle storie che (eventualmente) narra per diventare un mero campo sportivo competitivo dove ciò che conta è l’esecuzione del gesto atletico impiegato per vincere, da soli o in squadra, la sfida agonistica del momento. Allenarsi duramente per affinare l’astuzia e le proprie strategie, per potenziare i propri riflessi ed essere più rapidi, più precisi, più efficaci. Rendere, in ultima analisi, il videogioco un vero sport, anche da Olimpiadi. Premesso che trovo tutto ciò giustissimo e inevitabile (non si può fermare il progresso, e chiunque abbia cercato di farlo è sempre stato travolto dall’ineluttabilità della Storia, ridotto a un neo-luddista condannato al fallimento), la confusione aumenta. Che cos'è, dunque, il videogioco? Se non è più e non è solo una forma di intrattenimento, è cultura e arte oppure è sport? Perché, oggettivamente, sembrano identità difficilmente coniugabili; la reductio ad unum appare in effetti un artificio forzato e deviante, che avrebbe come unico risultato la creazione di un Frankenstein dalla personalità multipla, un ibrido non credibile né accettabile.

In conclusione, il rischio è che, a fronte di questo scontro ideologico, si torni a rivendicare la mera natura di svago del mezzo “videogioco”, quasi a ritrarsi in una condizione di primigenia e fanciullesca innocenza, uno snobismo di ritorno che, in realtà, rischierebbe di far compiere molti passi indietro al videogioco nel suo lungo e impervio cammino di legittimazione. Quel che invece dovremmo rivendicare è che il videogioco è un termine ombrello che ormai ricopre troppi “oggetti” dall’identità totalmente diversa tra loro. È quella che chiamo la Sindrome di Asteroids. In Asteroids un’astronave colpiva dei meteoriti, e nel farlo li spezzava in rocce più piccole, che sfuggivano rapide in direzioni diverse. Ecco, oggi il videogioco è un asteroide colpito troppe volte per poter essere sempre riconducibile a un’identità comune. Il problema è di sistematica e non è eludibile ancora a lungo, perché alcuni videogiochi sono semplice svago commerciale, altri sono simulatori, altri sono espressione artistica, altri ancora potranno essere sport olimpici. Videogioco sic et simpliciter, ora e sempre? Troppo semplicistico, anzi: errato. Prima ce ne renderemo conto, prima troveremo una soluzione, anche perché il mondo va avanti, a grande velocità, quali che siano le nostre inclinazioni.

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