Come scrive l’antropologo Roberto De Angelis, il fenomeno dell’immigrazione ‒ con tutto ciò che porta con sé, dai cambiamenti sociali che impone alle politiche di accoglienza che si sceglie di adottare ‒ deve essere affrontato come un ‘fatto sociale totale’. Riprendendo la nozione dell’antropologo Marcel Mauss, un fatto sociale totale è un elemento in grado di influenzare la totalità dei meccanismi di funzionamento di una comunità, presentandosi non come fattore isolato ma come parte strutturale del sistema. In quest’ottica il fenomeno migratorio, in particolare nella città di Roma, va letto nelle sue specificità rispetto alle precise questioni che solleva, ma anche come un progressivo cambiamento demografico della città, come cambiamento sociale che investe il futuro della città nella sua interezza. Così come fu in passato con l’immigrazione interna, in particolare dal Mezzogiorno e dalle aree interne del Paese, anche se meno massicciamente che in altre città in particolare del Nord Italia, l’immigrazione straniera ha modificato e modifica tutt’ora la fisionomia di Roma e dei suoi quartieri, da un punto di vista sociale ed economico, oltre che urbanistico; l’idea di comunità si disarticola e ricompone complicandosi, costruendosi attorno a complessi processi di ridefinizione attraverso iniziative istituzionali, ma anche e soprattutto pratiche di accoglienza e integrazione sviluppate dal basso.

Nel cercare di dare un primo sguardo alla questione, allora, per delineare quella che è la situazione attuale e individuare quelle che potrebbero essere le speranze di una Roma sempre più multiculturale, meticcia, si è scelto di partire da una delle tante comunità che oggi la attraversano e la abitano, la comunità bengalese. Per comprendere l’importanza che questa fetta di popolazione riveste ora in città è sufficiente dare uno sguardo ai dati: a Roma si trovano al 1° gennaio 2020 340.324 cittadini stranieri (fonte ISTAT); di questi 29.600 sono bengalesi. La portata del numero è restituita dal raffronto su scala nazionale: il totale di bengalesi in Italia è di 138.895, facendo quindi sì che quella romana sia la comunità più estesa di tutto il Paese. Oltre un bengalese su quattro in Italia vive a Roma, in controtendenza con il dato generale che vede il Nord come territorio prediletto di insediamento degli stranieri. E se quindi quella bengalese è l’ottava comunità straniera in Italia per numero di cittadini, a Roma è la terza, rappresentando l’8% della popolazione straniera ‒ quando a livello nazionale è appena il 2,7%. Uno straniero su dieci è bengalese e oltre un bengalese su quattro è romano: se il volto della popolazione romana sta progressivamente cambiando, sicuramente una parte consistente proviene dal subcontinente asiatico, da un Paese che esiste da solo cinquant’anni (la Repubblica Popolare del Bangladesh esiste dal 1971, dalla fine della guerra di liberazione) e che in circa la metà del territorio italiano conta quasi il triplo delle persone.

Storia e geografia della comunità bengalese romana

«50% bangla, 50% italiano, 100% Torpigna» così si descrive Phaim Bhuiyan, romano, italiano, bengalese, autore e protagonista di Bangla, film che racconta la sua storia ‒ e probabilmente quella di tanti altri ragazzi e ragazze ‒ vincitore ai David di Donatello come miglior regista esordiente. E Torpignattara (o Tor Pignattara) non è un elemento casuale: la distribuzione della comunità bengalese sul territorio romano infatti non è omogenea, ma sbilanciata fortemente verso alcune zone, soprattutto a est, tra cui appunto Torpignattara, ma anche gli altri quartieri che seguono la Casilina e la Prenestina: Quadraro, Esquilino, Centocelle. Una sproporzione rispetto ad altre zone che potrebbe apparire casuale, ma che affonda invece le sue radici nella storia dell’immigrazione bengalese ed asiatica a Roma oltre che in fattori economici e culturali. Proprio in via Casilina, al civico 3, sorge l’ex pastificio Pantanella: luogo storico, protagonista di un lunghissimo sciopero dei lavoratori all’inizio degli anni Settanta, è uno degli snodi cruciali della storia del subcontinente asiatico nella capitale. Racconta Ejaz Ahmad, giornalista e scrittore che vive in Italia da decenni, che è all’inizio degli anni Novanta, dopo l’approvazione della legge 39/1990, la legge Martelli che disciplinava in materia di immigrazione e ridefiniva lo status di rifugiato, che si  inizia a registrare un aumento sempre più consistente di arrivi dal continente asiatico e dal Bangladesh; in quel momento l’immigrazione dall’estero cessava di essere un’avanguardia ma cominciava a definirsi come un fenomeno strutturale, rispetto al quale mancavano però gli strumenti adatti. La Pantanella viene quindi occupata da migliaia di immigrati perlopiù asiatici e africani, che trovano lì un luogo in cui stare, rivendicando casa e diritti. Protagonisti dell’occupazione insieme a loro don Luigi Di Liegro, fondatore della Caritas romana, e Dino Frisullo. Al termine del 1990 l’ex fabbrica viene sgomberata e le persone che ci vivono si stabiliscono nei quartieri limitrofi, seguendo appunto la via Casilina e i collegamenti in essa presenti, in particolare le tre linee di tram che da Termini si diramano in quelle direzioni, il 5, il 14 e il 19. Oltre a ciò, la necessità di disporre di negozi halal nelle vicinanze ‒ che vendono cioè prodotti conformi ai precetti religiosi musulmani ‒ ha portato al costituirsi delle più ampie comunità bengalesi a Roma nella parte est, comunità che sono tuttora fortemente consolidate in quelle zone: il 6% circa dei bengalesi vive a Torpignattara, all’Esquilino circa il 5% (fonte Mapparoma).

Identità individuale e identità di gruppo: fattori culturali

Per tentare di comprendere il mondo e le attività che ruotano attorno alla comunità bengalese, ricorda Ejaz Ahmad, è necessario non cercare di leggerli attraverso un’impostazione culturale di stampo occidentale, ma coglierne le specificità proprie. L’identità culturale bengalese, infatti, è primariamente fondata sul gruppo, sulla comunità, prima ancora che sull’individuo: è il gruppo che precede il singolo e dà la dimensione di senso cui riferirsi, e non il contrario, gruppo che nella maggioranza dei casi coincide soprattutto con la famiglia ‒ in una concezione più ampia di quella occidentale, oltre quindi i legami di primo grado con genitori e fratelli o sorelle ‒ e in seguito con il resto della comunità. I bengalesi, soprattutto le prime generazioni (mentre per le seconde come si vedrà il discorso è leggermente diverso), agiscono sempre in una dimensione collettiva, il cui fulcro centrale è il matrimonio. Anche per gli spostamenti vale questa regola, che la rende una delle comunità più coese tra quelle presenti: seguono i propri connazionali e molto spesso al momento di arrivare in Italia hanno già alcuni punti di riferimento, in particolare alcuni elementi della famiglia che sono emigrati da tempo. Da questo forte legame familiare e comunitario trae spiegazione la minoritaria presenza di bengalesi tra i senzatetto: è raro che si arrivi senza un appoggio familiare già presente e sussistono rapporti di solidarietà interni che fanno sì che difficilmente un bengalese possa trovarsi senza casa.

Sempre i fattori culturali sono elemento decisivo nell’inquadramento della situazione economica e lavorativa della comunità. Come si legge nel rapporto annuale sulla comunità bangladese del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali più della metà delle persone è inserita all’interno del settore del commercio e della ristorazione, il 58%, a fronte di un 24% rispetto agli altri lavoratori non comunitari; strettamente legato a ciò è il tema dell’imprenditorialità, essendo la quarta comunità in Italia per numero di imprese titolari, la maggioranza delle quali sempre nel settore del commercio. Il processo di immigrazione li vede quindi iniziare come lavoratori dipendenti, spesso in ristoranti e cucine, per poi aprire il proprio negozio appena possibile, quando si è risparmiato a sufficienza, celebrare il matrimonio e condurre l’impresa a livello familiare. In ciò l’elemento culturale risiede nella grande considerazione che è riservata al commercio nella tradizione musulmana ‒ solo un 5% circa è induista ‒ e in particolare al lavoro autonomo, considerato migliore e più degno del lavoro dipendente. E su ciò pesa anche il fattore comunitario citato precedentemente: in una dimensione culturale centrata sul gruppo il tempo libero è una nozione decisamente meno importante e la realizzazione personale è sempre legata a quella comunitaria: è così che i negozi rimangono aperti per molte ore al giorno, solitamente fino alle 23 o alle 2 di notte. Vengono così occupate le ore notturne, lasciate solitamente libere dai negozi gestiti da italiani che in quelle ore godono del proprio tempo libero, permettendo ai market bengalesi una sorta di monopolio su quella fascia oraria che consente loro di resistere alla crisi delle piccole imprese contro le grandi catene di distribuzione. Market che, rimanendo aperti in orari notturni, danno anche un maggior senso di sicurezza alle strade, illuminandole e assicurandovi una presenza.

Le donne e i giovani

Altra peculiarità della comunità bengalese è legata alla presenza delle donne: tra tutte le comunità infatti è una di quelle in cui si registra una più marcata disparità di genere a livello demografico. Su 32.762 bengalesi nella provincia di Roma nel 2020 solo 9.126 sono donne, il 27,8%, in linea con il dato generale italiano. Tra le donne inoltre si registra un tasso di disoccupazione pari all’83%, e di inattività dell’84,1%. Una comunità centrata sul gruppo e sul matrimonio si presenta come prevalentemente maschile: sono gli uomini a costituire l’avanguardia dell’immigrazione, mentre le donne arrivano successivamente una volta sposate o celebrando in Italia il matrimonio ‒ spesso combinato ‒ rimanendo poi escluse dai circuiti lavorativi e di attività per prendersi cura della famiglia. Rispetto a ciò il trend è interessante: se nel 2020 le donne rappresentano il 27,8% infatti, alcuni anni fa, nel 2014, erano il 22,5% con un numero totale di persone pressoché simile. Sono sostanzialmente in aumento, sintomo forse del fatto che si sta progressivamente entrando in una seconda fase migratoria anche per la comunità bangladese, come avvenuto per altre popolazioni: esaurita la prima fase a prevalenza maschile e spinta da motivi lavorativi ed economici, stabilitosi qui un consistente numero di persone ed avviato sempre più il processo di inserimento nel tessuto economico e sociale della città (iniziano ora infatti anche a differenziarsi le attività, e oltre ai market aprono per esempio CAF specializzati e lavanderie), l’immigrazione inizia a seguire soprattutto fattori familiari, con il 43% dei permessi di soggiorno rilasciati per ragioni di ricongiungimento familiare. Uno stadio ancora embrionale rispetto ad altre comunità, ma che sembra potersi avviare verso una nuova fase.

In questo contesto emerge un ultimo elemento decisivo, che potrebbe rivelarsi la chiave del futuro della comunità: i giovani. Con un’età media tra le più basse fra gli stranieri, 28,9 anni, e un 45% di persone con meno di 30 anni, i giovani e le seconde generazioni costituiscono un fattore fondamentale. Come spiegano Ejaz, Phaim e Rifat, con gli ultimi due che in Italia sono cresciuti se non nati e qui hanno frequentato tutte le scuole, i giovani si trovano oggi in una posizione ‘traballante’: divisi tra il portato culturale della famiglia, improntato al lavoro e il matrimonio, e quello acquisito negli anni in Italia, volto più alla realizzazione personale: sono una generazione in questo senso al bivio. Un delicato processo di trasformazione, in cui auspicano di riuscire a tenere insieme molti elementi eterogenei tra loro: i giovani sono il motore dell’integrazione, perché conoscono la lingua a differenza dei genitori, sono maggiormente inseriti per via delle scuole e delle altre attività, hanno ambizioni personali; d’altro lato, come sottolineano, il rischio potrebbe essere quello di vivere un processo di totale assimilazione, disperdendo la cultura di origine e svuotandola di significato. Conservare senza isolare, nel segno di una multiculturalità che superi alcuni tratti conservatori, come quelli legati alla vita delle donne, ma non si appiattisca su una cieca adesione a uno stile di vita occidentale, mescolando mondi diversi tra loro. Dalle scelte e dalle direzioni che prenderanno i giovani e le seconde generazioni sembrano allora dipendere il futuro e le speranze della comunità bengalese a Roma.

Crediti immagine di copertina: Maria Marzano

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

Argomenti

#bengalese#multiculturale#Roma