Intervista a Fabio Belsanti

Il videogioco, oltre a essere il segmento di gran lunga più ricco e proficuo dell’industria dell’intrattenimento (da anni non tengono il passo né il cinema e le serie TV, né la musica), è anche un mezzo espressivo d’avanguardia, unico nel suo genere e caratterizzato da quel fattore, l’interattività, che lo rende al tempo stesso intelligente, spiazzante ma anche sovversivo, destabilizzante. Come fa il videogioco a essere così fortemente prodotto di massa e a non perdere la sua connotazione artistico-culturale? Di questa e altre suggestioni abbiamo parlato con Fabio Belsanti, storico game developer italiano (PM Studios) che, a Bari, insieme ai colleghi Elisa Di Lorenzo (Untold Games) e Roberto Talamo, ha di recente tenuto un convegno dedicato al rapporto tra il gaming e la cultura tradizionale all’interno del sistema capitalistico.

Qualcuno ancora dubita che il videogioco, in quanto opera interattiva, appartenga alla sfera culturale? E se sì, perché?

Semplificando al massimo, in modo erroneo, potrei rispondere che, sì, sono ancora in molti a dubitare che i videogiochi abbiano a che fare con ciò che comunemente è definito, o percepito, all’interno della “sfera culturale”. Restando sulla stessa linea, mettendomi sulla difensiva, parteggiando apertamente per il settore videoludico per ovvi motivi professionali, potrei genericamente dire che un’idea così antiquata è alimentata da una diffusa ignoranza, mista a pregiudizio, radicata sorprendentemente anche tra coloro che hanno avuto accesso a un’istruzione di alto livello. In realtà, questa domanda, solo in apparenza semplice, comporta più risposte, piuttosto ampie e complesse, che portano necessariamente ad altri interrogativi non lineari.

In generale, va constatato che i maggiori dubbi, in particolare di una parte del mondo intellettuale, riguardano l’appartenenza del videogioco all’alta cultura e credo anche che questi dubbi, in vari casi, siano legittimi. Mentre altre forme d’arte sono già state “legittimate” dagli studi accademici, i game studies, la ludologia, pur potendo vantare studi pluriennali di rilievo, non sono ancora riusciti a creare un’opinione diffusa circa la “nobiltà artistica” dei videogame (anche a causa dell’evidente rapporto col mercato e gli aspetti di “seduzione” del pubblico che questa forma intrattiene).

I videogame, ultimi esponenti tecnologici dell’universo dei giochi, sono per ovvi, acclarati motivi, parte integrante della cultura umana, come lo sono i giochi con le carte, gli scacchi o il calcio. È quasi banale dire che chiunque oggi pensi di poter escludere i giochi dalla storia della cultura, per un qualsiasi motivo o “cavillo”, dovrebbe solo rimettersi a studiare.

La grande provocazione, o intuizione geniale (dipende dai punti di vista), che Johan Huizinga lanciò con Homo ludens, poco prima dell’inizio della Seconda guerra mondiale, è che il gioco precede la cultura. Personalmente credo che la visione di Huizinga fosse esatta e possa essere oggi ulteriormente estesa e approfondita per analizzare tutte le nuove forme ludiche in continua evoluzione. Nonostante le contraddizioni e le debolezze presenti in un lavoro della prima metà del secolo scorso, debolezze e contraddizioni magistralmente evidenziate dal saggio introduttivo di Umberto Eco nell’edizione italiana del testo (Einaudi), Homo ludens è un’opera da cui non si può prescindere se si vuole sviluppare una seria riflessione su giochi e videogiochi contemporanei. Partendo da questa base teorica, appare abbastanza chiaro che, in considerazione del fatto che l’umanità ha dato senso al mondo e alla vita mediante la creazione di giochi che hanno costruito strutture ludiche alla base dell’invenzione della cultura, i videogame, forti anche del loro indiscutibile, pervasivo successo, sono uno straordinario strumento culturale, non solo di diffusione della cultura esistente, ma soprattutto di creazione di nuove forme culturali ancora inesplorate. Un buon numero di sviluppatori di videogiochi, artisti e intellettuali è consapevole di tutto questo, ma il grande pubblico e buona parte delle istituzioni ancora no (andrebbe poi fatta una netta distinzione tra il livello nazionale italiano e quello estero, in particolare anglosassone, dove la ricerca ludologica e lo sviluppo “indipendente” sono a uno stadio molto più avanzato, ma richiederebbe davvero troppo tempo parlare adeguatamente anche di questo).

L’interattività, specifica caratteristica dei videogiochi, mette in parte in crisi le consolidate forme artistiche della narrazione, e sembrerebbe un problema nuovo, se non fosse vero che tutti i giochi ricadono nella sfera dell’azione (sebbene nei videogiochi in genere simulata) e non della contemplazione o del pensiero astratto “puro”, ma questa problematica, molto interessante, irrisolta e da approfondire, non implica l’esclusione dei videogame dalla succitata sfera della cultura, ma può tuttavia ingenerare quel generico stigma secondo cui questo medium interattivo dovrebbe essere relegato nello scintillante parco infantile dell’intrattenimento leggero, divertente, spensierato, senza avere, o poter ambire di esprimere, alcuna valenza culturale, alta o bassa che sia.

Come collocherebbe il videogioco rispetto a media dalla storia ben più lunga come il cinema o la letteratura?

Riprendendo quanto in parte già detto, non possiamo non notare come la differenza col cinema e con la letteratura sia notevole, perché nei primi due casi contempliamo il lavoro altrui, mentre nel videogioco agiamo in modo fittizio all’interno del lavoro altrui. Il lettore e lo spettatore non possono essere assimilati del tutto al giocatore. Se volessimo cercare un genere di confine, potremmo pensare alla commedia dell’arte, dove non c’era un testo forte ma un canovaccio di riferimento, e gli attori potevano improvvisare sulla base di quel canovaccio. Nel videogioco con caratteristiche narrative, gli autori producono il canovaccio, e il giocatore si trova al posto dell’attore (non dello spettatore) e non è chiaro se ci sia o meno il ruolo dello spettatore.

Nonostante l’annosa questione dell’interazione, ai videogiochi è comunque generalmente riconosciuto lo status di pop art, ma non è così scontato riuscire a definirli, elevarli e collocarli, in modo chiaro e definitivo, accanto ad altri media, come letteratura e cinema, nell’Olimpo dell’alta cultura e delle arti con la “a” maiuscola.

I videogame devono inoltre fare i conti con vari paradossi e crisi di una modernità in cui le scienze umane “soft”, strettamente connesse alle arti espressive, soffrono in genere di una sorta di complesso di inferiorità rispetto alle scienze sperimentali “hard”.

Con i miei colleghi fondatori del progetto, il teorico della letteratura Roberto Talamo e la fondatrice di Untold Games Elisa Di Lorenzo, siamo convinti che vi siano almeno due generazioni di giocatori adulti pronte ad accogliere a braccia aperte produzioni videoludiche con contenuti e dinamiche sempre più complessi capaci di attivare riflessioni e discussioni sociali, economiche, politiche ed esistenziali. Ma, mentre in passato vi erano autorità, canoni e istituzioni riconosciuti con il potere intellettuale di “certificare” lo status artistico di singole opere o interi settori della cultura, oggi viviamo in un’epoca in cui l’intero edificio culturale è sempre più indefinibile e in crisi dall’interno e dall’esterno delle sue mura costruite da società caratterizzate da spinte centrifughe incredibilmente potenti.

Nella moderna e dominante cultura liberale, dopo la famosa Fontana di Duchamp, oggi più che mai “la bellezza è nell’occhio di chi guarda”, e quindi l’universo dei videogame, proprio nel momento in cui potrebbe, in parte vorrebbe, e ‒ a mio avviso ‒ per certo meriterebbe, conquistare il suo posto tra i grandi dell’alta cultura, non trova un “sacro” giudice che possa dargli tale accesso, perché paradossalmente è l’intero Olimpo a rischiare di collassare e perdersi nel buio dell’indefinito.

In sintesi, mettendo per un attimo da parte il difficile contesto storico e buona parte delle questioni teorico-filosofiche appena accennate, a livello personale, collocherei il videogioco sin da ora nel (seppur decadente) Olimpo dell’alta cultura, non solo per quello che è stato fin qui, ma anche per quello che potrebbe essere, ma credo anche che questa elevazione potrà avvenire, in modo ampio ed evidente, quando vi saranno più opere riconosciute di grande valore artistico e culturale da parte di un nuovo, autorevole ceto intellettuale in grado di valutare le molteplici peculiarità di questo mezzo espressivo. Del resto va notato come importanti musei quali lo Smithsonian American Art Museum  abbiano già dato vita a mostre riguardanti Arte e Videogiochi, e come in Italia, nonostante le tante arretratezze e le molteplici contraddizioni, esista sin dal 2012 il VIGAMUS, uno dei primissimi musei dedicati alla recente, ma non trascurabile, storia dei videogiochi.

Inserire la parola “capitalismo” tra “videogiochi” e “alta cultura” suona piuttosto provocatorio...

Credo che molte parole di queste prime due edizioni del progetto siano state quantomeno non usuali per il settore di cui ci stiamo interessando con modalità multidisciplinari. Svariate, illustri, categorie e definizioni del secolo scorso sono cadute in disgrazia e sembra esserci grande cautela, o addirittura timore, a utilizzarle in modalità nuove. Onestamente, quanti oggi osano parlare apertamente di “alta cultura” o del ruolo, e delle influenze, a tutti i livelli, delle strutture, materiali e immateriali, del capitalismo nell’arte e nella comunicazione? Ovvio, vi sono ancora studiosi e intellettuali di spicco che mettono in dubbio la vittoria del sistema capitalistico dopo il crollo del muro di Berlino, ma di sicuro sono pochi coloro che, come sottolineato dalla domanda, mettono in relazione il mondo dei videogame con queste critiche e riflessioni. Il paradosso è che il potere politico reale, nelle principali aree strategiche del mondo, sembra essersi accorto prima degli sviluppatori di videogame, di buona parte degli intellettuali e della società in senso lato, dell’assoluta importanza e centralità di questo medium interattivo nella storia contemporanea. Se quanto appena affermato non fosse vero, la CIA, in linea con lo storico legame con Hollywood, non si sarebbe interessata alle sceneggiature degli Avengers e il Partito comunista cinese non si sarebbe occupato di Peppa Pig, dei contenuti narrativi nei videogame per promuovere i “corretti valori cinesi” e della regolamentazione degli eSports.

Consci di questi paradossi e criticità abbiamo in effetti deciso di utilizzare le parole “Alta Cultura” e “Capitalismo” in modo provocatorio, in un periodo in cui autori, docenti, competenze, autorità, autorevolezza, storia, storie, notizie, tentativi di ricerca della verità, sono tutti diventati temi, parole, immagini, concetti sconnessi travolti da un turbine caotico di frammentate informazioni che viaggiano rabbiosamente nei sistemi di comunicazione contemporanei, sistemi in teoria sociali che per configurazione e interfacce assomigliano sempre più a giganteschi videogame fondati sulle infowar gestite da miriadi di soggetti con scopi e assetti variabili.

Grafici e sistemi finanziari sono in qualche modo assimilabili ai giochi di strategia, giocare in borsa, oggi più che mai, significa video-giocare in borsa. Le valute virtuali, nate per regolare gli scambi di eroi digitali alla ricerca di avventure immaginarie tra foreste, sotterranei e interi continenti fantastici, sono in qualche modo diventate reali, mettendo in crisi la realtà stessa dei paper money degli Stati.

Il nesso tra arte e potere, arte e denaro è storicamente evidente. Durante il recente convegno di Bari, il collega Roberto Talamo citò, per ovvi motivi, Mecenate e l’apice della cultura romana in epoca classica. È chiaro che il rapporto odierno, post-rivoluzione industriale e informatica, tra cultura, arte e denaro è molto diverso rispetto a quello esistente nell’Antichità o nel Rinascimento, ma la relazione tra le svariate manifestazioni culturali di una società in continua trasformazione, le strutture e i protagonisti del potere economico-politico, i mezzi e i creatori di nuove forme espressive e di comunicazione (il videogioco è oggi parte di tutto questo, ovviamente) non può essere trascurata e va, a nostro avviso, continuamente analizzata per provare a comprenderla in tutte le sue sfaccettature e implicazioni, nonché, forse, per riuscire a governarla per provare a capire chi siamo e se stiamo davvero realizzando ciò che vogliamo nel grande flusso della/e nostra/e storia/e.

Che cosa frena lo sviluppo culturale del videogioco? E che cosa invece lo agevola?

Anche in questo caso, gli elementi da prendere in considerazione sono molteplici, ed esiste una netta distinzione tra Italia e resto del mondo, con tutta una serie di peculiarità macro-regionali che in molti casi, a onor del vero, non sono ancora riuscito a studiare. Banalmente, la situazione in Cina, dove c’è un potere centrale molto forte che, nel bene e nel male, ha deciso di governare questo settore, è molto differente da quella in Europa o negli Stati Uniti, dove ci sono poteri e interessi concorrenti più complessi che agiscono con modalità spesso contraddittorie e nicchie di libertà più o meno evidenti che riescono a produrre opere indipendenti non del tutto allineate al cosiddetto mercato mainstream.

Restringendo lo sguardo all’essenziale, sono convinto che ci siano due ostacoli principali allo sviluppo culturale del videogioco: infantilismo e capitalismo puro. Giocatori e sviluppatori di videogiochi sono, da sempre, molto legati al primitivo concetto che i giochi debbano essere primariamente divertenti per darci la possibilità di tornare a essere bambini, innocenti, spensierati, rassicurati e in qualche modo al centro dell’Universo. Gran parte dell’estetica e dei contenuti videoludici sono indubitabilmente permeati da questo gusto infantilistico che conquista spesso giocatori di tutte le fasce d’età, dal bambino, all’adolescente, all’ultraquarantenne. D’altro canto, anche in videogiochi narrativi con grafica o storie più realistiche, resta quasi sempre, ad esempio, un confortante, immaturo, rapporto con la morte. Uccidere o essere uccisi, violenza a parte, è un classico rituale videoludico che conduce, nel peggiore dei casi, a un circolo infinito di rinascite che può essere attivato per raggiungere un esito sperabilmente migliore del precedente (la resurrezione, di uno o più personaggi, è nel codice: dolore e sconfitta possono essere cancellati).

Affrontare in un videogioco temi universali come il senso della vita e della morte, in modalità non necessariamente consolatorie, non è, per ovvi motivi, considerato un affare con grandi possibilità di successo finanziario da parte degli editori, grandi o piccoli che siano. Ma, dato che viviamo in una società capitalista, gli sviluppatori necessitano di capitali (spesso ingenti) per produrre videogiochi all’altezza di temi come quelli sopraccennati. I videogiochi, purtroppo o per fortuna, tranne rare eccezioni, necessitano di team piuttosto vasti e sono soggetti al cosiddetto loop del trial and error.  Per la loro natura legata al gameplay, che deve essere analizzato più e più volte e che può risultare non adeguato per un illimitato numero di test, i videogiochi differiscono molto, ad esempio, dalla letteratura, dove la responsabilità, i costi e i tempi sono concentrati su un singolo autore. È ovvio quindi che gli editori che finanziano i videogiochi del mercato mainstream, che sono arrivati a costare oltre cento milioni di dollari, non abbiano alcuna intenzione di sperimentare nuove forme complesse culturali, che aumenterebbero solo il rischio di insuccesso.

All’interno di questo scenario, in teoria in stallo, esistono però svariate, coraggiose produzioni indipendenti, che stanno riuscendo a esprimere al meglio il loro libero desiderio artistico realizzando opere di grande spessore culturale (penso al pluripremiato Disco Elysium, ad esempio). Questo fuoco creativo degli sviluppatori indipendenti, adulti e consapevoli dell’impatto artistico e sociale delle loro opere, è sicuramente un grande elemento a favore dell’evoluzione culturale del videogioco.

Altro aspetto molto importante, spesso trascurato e in parte snobbato dagli sviluppatori, per la maturazione culturale del settore videoludico sarebbe la diffusione dei videogames definiti educational che sono purtroppo in molti casi finanziati in modo non adeguato, in particolare dalle istituzioni, e che dovrebbero invece essere uno strumento integrato di supporto all’educazione “tradizionale” nelle scuole. Davvero quasi superfluo affermare la centralità di una moderna, efficiente scuola nell’educazione delle nuove generazioni, anche e forse soprattutto, per fornire agli studenti gli strumenti e le conoscenze di base per affrontare consapevolmente il gigantesco universo dell’intrattenimento interattivo che non è solo un mercato del divertimento virtuale, ma è un grande contenitore di storie e modelli estetico-culturali capaci di influenzare, e in parte plasmare, le nostre vite reali.

Le istituzioni fanno abbastanza per il videogioco?

Per l’ennesima volta, la distinzione tra Italia e resto del mondo è doverosa... e alquanto avvilente. Non voglio fare una lista dei Paesi, come il Canada, dove i finanziamenti allo sviluppo di videogame hanno fatto crescere un fiorente settore dell’economia nazionale, ma è indubbio che nella nostra penisola, a voler essere ottimisti, siamo ancora solo all’inizio di un lungo percorso di consapevolezza istituzionale circa le immense potenzialità del videogioco. La crisi strutturale dell’economia italiana in questo nuovo millennio, dopo gli shock finanziari internazionali del 2001 e del 2008, ovviamente aumenta le difficoltà per la nostra, piccola, industria dei videogame. Da un punto di vista politico, ci vorrebbe molto coraggio e lungimiranza per decidere di utilizzare risorse limitate su settori nuovi piuttosto che affrontare altre emergenze su settori magari morenti, ma che impiegano già molti lavoratori non più giovani con gravi difficoltà di ricollocamento.

Certo se, come sopraccennato, nelle istituzioni vi fosse una classe dirigente più colta e consapevole, non solo delle innegabili criticità (da governare), ma anche e soprattutto delle poliedriche opportunità legate a questo mezzo di comunicazione, sarebbe possibile dar vita a un piano strategico nazionale per costruire un tessuto imprenditoriale e professionale molto più ampio e solido di quello attuale. La speranza è che nelle presenti e future classi dirigenti vi siano sempre più videogiocatori adulti con il desiderio di supportare e ampliare le applicazioni e le sperimentazioni videoludiche nella società. Va detto, comunque, che, sebbene non siano la maggioranza, esistono già dirigenti illuminati che pur non essendo videogiocatori hanno compreso le potenzialità di questo strumento. Dal 2001 esiste anche l’associazione di categoria AESVI che, tra mille difficoltà, si batte per migliorare questa situazione.

Può fare un ritratto del videogiocatore di oggi?

Esistono miriadi di “categorie” di videogiocatori, molte delle quali, sarò sincero, mi sono alquanto ignote. Genericamente una classica suddivisione avviene tra hardcore e casual gamer, ma credo che oggi questa netta separazione sia sempre meno evidente.

Si stima che vi siano più di due miliardi di videogiocatori nel mondo, e che nelle future generazioni tutti, a qualche livello, saranno videogiocatori. Vi sono nazioni dove si studiano (nuovi) sistemi informatici di gamification delle strutture sociali. In questo scenario, la questione semantica di cosa sia un videogioco credo sia e sarà centrale se vorremo cercare di gestire, non solo da un punto di vista economico-gerarchico-utilitaristico, questo fenomeno.

Ho letto degli studi che riportano in auge il caro vecchio Marx anche per leggere le “classi” dei videogiocatori. È molto triste, ma alcuni professori negli Stati Uniti che hanno provato a utilizzare a scuola alcuni noti videogame commerciali come Civilization di Sid Meier hanno dovuto constatare l’impossibilità di farlo negli istituti collocati in aree svantaggiate a livello socioeconomico e culturale. I ragazzi delle classi meno abbienti, nella stragrande maggioranza dei casi, non riuscivano a comprendere le dinamiche simulative di gameplay di un gioco strategico a sfondo storico di media difficoltà, e comunque non provavano alcun fascino verso opere di questo genere.

Sono certo che l’economia politica ci potrebbe aiutare a ricostruire un quadro più realistico del videogiocatore moderno, che credo siamo soliti guardare solo in base alle logiche del marketing o dell’informazione specialistica di settore (oppure in base a pregiudizi negativi).

Un’ultima riflessione su questo argomento che mi sta a cuore esprimere riguarda gli sviluppatori di videogame, videogiocatori esemplari per passione e professione. Pur non volendo generalizzare troppo, non posso non notare, dopo vent’anni d’esperienza nel settore, come esista tra gli sviluppatori di videogame una grande intelligenza tecnico-creativa, molto spesso scevra di fondamenti culturali storico-classici. Credo che gli sviluppatori di videogame, i programmatori in particolare, rappresentino molto bene l’anima inquieta del nuovo millennio: hanno grandissime doti, un desiderio illimitato di fare, ma vivono in un presente perennemente proiettato nel futuro che non guarda mai al passato, non storicizza nulla e tende a perdersi nel labirinto del narcisismo tecnologico.

Infine, ha già un’idea dell’aspetto che vorrebbe affrontare il prossimo anno con il suo convegno?

Dopo il successo delle prime due edizioni, stiamo lavorando, a stretto contatto con la Apulia Film Commission, al concept della prossima edizione e ai possibili spin-off che precederanno la tavola rotonda di dicembre 2020. Dopo le prime riunioni, anche se la decisione non è ancora ufficiale, siamo molto propensi a dar vita a un incontro internazionale di grande rilievo dal titolo: Videogames, Cinema e Alta Cultura.

Crediti immagine: Per gentile concessione di P.M. Studios Srl

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