15 giugno 2016

Il Workaholism: nuovi studi sulla dipendenza dal lavoro

La nostra è una Repubblica fondata sul lavoro, secondo la nostra Costituzione ballerina; o sullo stage, secondo l’ironico Severgnini. Il lavoro non è un diritto, ribatte la poco amata Elsa Fornero; rende liberi, a giudizio di Garibaldi o degli spietati nazisti ad Auschwitz. C’è la sua tinta nera, sempre in voga nella penisola; comunque meglio del bianco che connota i morti durante il suo esercizio. C’è poi chi dal lavoro non si riesce a staccare, si risveglia di notte col pensiero su quella mail in attesa, la cena familiare in silenzio perché l’attenzione vaga sul colloquio che poteva essere condotto diversamente, sul collega insopportabile o la strategia per produrre più utili. Sono i cosiddetti workaholic, termine coniato nel 1971 dallo psicologo nordamericano William Oates, autore del fortunato libro omonimo: quella dal lavoro può diventare una dipendenza patologica a tutti gli effetti, con rilevanti ricadute sulla vita privata. L’arroganza e il disinteresse per ogni altra sfera lo rendono infatti causa di un elevato numero di divorzi, quasi doppio rispetto alla popolazione sana. L’insidia deriva dal rispetto sociale che i grandi lavoratori si guadagnano - non al caso la loro icona Stachanov si è fatta aggettivo in tutte le lingue - e dal rinforzo dato dall’arricchimento economico che spesso ne consegue, a differenza degli esiti catastrofici di altre dipendenze come quelle da sostanza. Secondo stime raccolte negli ultimi decenni si calcola che un quinto dei manager giapponesi e il 5% dell’intera popolazione statunitense ne sia affetta; proprio negli Stati Uniti, a New York, è nata nel 1983 la più importante associazione per la sua cura, fondata sui dodici passi degli Alcolisti Anonimi. Ora grazie a un vasto studio norvegese (oltre 16 mila adulti coinvolti) coordinato dal gruppo di lavoro della psicologa Cecilie Schou Andreassen dell’Università di Bergen, appena pubblicato, si è scoperto che i workaholic hanno da due a tre volte maggiori probabilità di essere affetti da sindromi cliniche come DOC (disturbo ossessivo-compulsivo), depressione, ansia e deficit di attenzione. Secondo Andreassen, “chi ha una dipendenza da lavoro ottiene un punteggio più alto per tutti i sintomi psichiatrici nei test utilizzati. Portare l’esperienza lavorativa all’estremo sembra essere l’espressione di un disagio emotivo profondo. Non è ancora chiaro il ruolo dei geni nel disturbo, né il rapporto di causalità – cioè se è la dipendenza da lavoro a causare le sindromi cliniche o viceversa”. L’inventario utilizzato per identificare la possibile dipendenza da lavoro, la Bergen Work Addiction Scale, è semplice e autosomministrabile: bisogna assegnare un punteggio da 1 (mai) a 5 (sempre) alle seguenti affermazioni

 

– Pensi a come avere più tempo a disposizione per lavorare – Spendi molto più tempo lavorando di quanto inizialmente previsto – Lavori per ridurre il senso di colpa, ansia, impotenza e depressione – Capita che altri ti consiglino di ridurre il lavoro, senza che gli dia retta – Ti senti stressato se non ti è permesso di lavorare – Togli importanza agli hobby, al tempo libero, e all’esercizio fisico a causa del tuo lavoro – Lavori così tanto da influenzare negativamente la salute

 

Se il punteggio di 4 o 5 è assegnato a quattro o più affermazioni è possibile che sia presente il disturbo. Dallo studio è risultato che il 32% di chi era identificato come workaholist incontra i criteri del disturbo da deficit di attenzione (contro il 12% dei non dipendenti); il 25% di loro incontra i criteri del disturbo ossessivo compulsivo, contro il 9% dei non dipendenti; il 34% incontra i criteri della sindrome ansiosa, contro il 12% dei non dipendenti; il 9% incontra i criteri della depressione contro il 2% dei non dipendenti. Nel nostro paese mancano studi approfonditi sul tema; una stima riportata dal quotidiano Repubblica parla della sua presenza nel 3% dei lavoratori. Secondo la psicologa trevigiana Eleanna D’Alessandro “le dipendenze da comportamento sono vertiginosamente aumentate in Italia, in parte perché adesso sappiamo riconoscerle e quindi diagnosticarle, in parte perché la crisi economica ha fatto perdere quell’idea di controllo sulla propria vita. Etimologicamente il termine dipendenza indica l’essere appeso: la persona è in posizione passiva rispetto a qualcosa che ha potere su di lei. Le nuove dipendenze includono anche attività socialmente accettate come lo shopping e internet; risulta quindi difficile andare a delimitare i confini della patologia, per cui nella diagnosi è utile muoversi su un continuum i cui poli sono la normalità e la patologia”. Tra le terapie consigliate, oltre a quella di gruppo già citata, anche la psicoterapia individuale ad approccio strategico e la terapia familiare, utile a impedire la trasmissione intergenerazionale della sindrome e ad acclarare le sue conseguenze nella sfera privata.

 


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